King Crimson – Live at the Orpheum

A Robert Fripp sbagliare proprio non piace.

Questo non significa, chiaramente, che non sbagli mai: semplicemente quando sbaglia tenta in ogni modo di correggere il tiro, aggiustare la rotta, analizzando pezzo per pezzo quel che non va. Live at the Orpheum è il punto di arrivo di un percorso di questo tipo.

Nel 2008 i King Crimson si presentano sul palco per una serie di concerti in una nuova formazione a 5: alla batteria si unisce a Pat Mastelotto il celebre Gavin Harrison, al basso/stick ritorna Tony Levin a sostituire Trey Gunn che l’aveva rimpiazzato dal 2000 al 2003. Alla chitarra, oltre a Fripp stesso, il fido Adrian Belew.

La formazione in teoria è compatta ma il mini-tour si rivela deludente: nessun brano nuovo presentato bensì una specie di ritorno alla metà degli anni novanta: a parte The ConstruKction of Light e Level 5 non vengono proposti brani post-2000 anzi, per la maggior parte (12 pezzi su 16 in scaletta), il repertorio è focalizzato sui 4 album usciti dal 1980 al 1995. L’interplay tra Mastelotto e Harrison si rivela più difficoltoso del previsto e soprattutto, probabilmente a causa del ridotto periodo di prove pre-tour, le due batterie spesso sovrastano gli altri strumenti.

Il mini-tour americano del 2008 finisce e, a fine anno, Fripp richiama all’ordine i musicisti per ricominciare con un’altra serie di concerti. Accade però l’imprevisto: per un errore di comunicazione (così dicono) Belew ha già previsto di andare in tour con il proprio trio in sudamerica nello stesso periodo in cui Fripp ha previsto di girare di nuovo gli states con i Crim. Una telefonata fra i due congela i rapporti e Fripp è perentorio: per Belew non c’è più spazio nei Crimso. Tour annullato, tutto a monte.

I fan vengono a sapere dell’accaduto e – chi più chi meno – danno la band come morta, pensando che cambiare cantante e chitarrista dopo 28 anni sia troppo anche per Fripp.

Per sei anni Fripp di dedica ad altri progetti, in primis alla conclusione di una lunga battaglia legale per avere completamente a disposizione i diritti sul catalogo della band. Si concede una sola uscita discografica associabile ai Kc, ovvero A scarcity of miracles: un album atmosferico e un po’ sonnolento scritto a quattro mani con Jakko Jakszyk e al quale hanno partecipato in fase di sovraincisione Levin, Harrison e un inatteso Mel Collins, sassofonista nei King Crimson dal 1970 al 1972. Jakko stesso aveva collaborato con Collins a metà anni duemila per una cover band dei primi anni dei King Crimson creata con parte dei componenti originali e denominata 21st century schizoid band.

Confusione? Abbastanza.

Nel frattempo Mastelotto, Levin e Belew vanno in tour come Crimson ProjeKct, presentando una scaletta non molto diversa da quella dei concerti dei Crimso nel 2008.

A sorpresa, nel 2014, arriva l’annuncio: i King Crimson tornano in azione. A questo punto i fan – nessuno escluso – non hanno la benché minima idea di chi potrà far parte della formazione. Pochi giorni dopo la line-up viene annunciata insieme a una serie di date in giro per gli Stati Uniti a settembre. Gli occhi si sbarrano:

 

Robert Fripp: chitarra

Jakko Jakszyk: chitarra e voce

Tony Levin: basso, stick

Mel Collins: sassofono, flauto

Pat Mastelotto: batteria

Bill Rieflin: batteria, tastiere

Gavin Harrison: batteria

 

Subito sembra una presa per il culo. La formazione del 2008 aveva dei problemi a sostenere l’impatto di due batteristi sul suono generale e Fripp cosa fa? Prende un terzo batterista da aggiungere ai due già in team. In più, per rendere il tutto più facile, sostituisce il secondo chitarrista e cantante. Sì, dopo 34 anni.

I fan di qualunque altro gruppo temerebbero il peggio ma i fan dei Crimso sanno una cosa: maggiore è l’apporto di novità, maggiore è la cura che verrà messa da Fripp per far sì che ne esca qualcosa di buono. Inoltre, per la prima volta nella storia della band, viene messa insieme una massiccia campagna online per diffondere un bel po’ di informazioni durante le prove della band: in questo modo calmano la fame dei fan e contemporaneamente la ingigantiscono. Si scopre che la formazione calcherà i palchi suddivisa in una front row composta dai tre batteristi e una back row con gli altri quattro musicisti. Le prove inoltre si svolgono prima separatamente fra i due gruppi, infine tutti insieme. Da come si svolge la preparazione sono in molti ad aspettarsi un nuovo tour di successi del passato, come nel 2008, ma al momento del primo show l’8 settembre la scaletta lascia tutti di sasso. 17 pezzi in setlist, 6 dei quali non venivano suonati live da 40 anni. Di tutta la scaletta soltanto 5 pezzi erano parte del repertorio dei concerti del 2008 e nessuna – proprio nessuna delle canzoni contiene parti che erano state cantate da Belew. Molti la definiscono una scaletta da sogno, anche se indubbiamente nostalgica.

La scelta dietro a questa nuova setlist è evidente: per evitare gli ovvii confronti tra i cantanti Fripp ha deciso di fare ciò che non aveva mai fatto prima, ovvero concentrarsi sul repertorio del remoto passato della band, includendo anche alcuni pezzi dal repertorio recente ma soltanto in versione strumentale. A fare da ponte fra le due epoche – oltre a se stesso – è anche Mel Collins, il quale era spesso presente sul palco con lui nel remoto passato.

E le tre batterie? La visione di Fripp anche qui si rivela vincente: due batteristi sullo stesso palco possono guardarsi, ascoltarsi e seguirsi e così facendo trovano – se sono bravi – un suono unitario. Il contro è che questo li porta a fare del gran casino. Tre batteristi però non possono farlo perché è impossibile, mentre suoni, tenere d’occhio e sott’orecchio altre due persone contemporaneamente. Quindi, durante le prove del tour, la front-line si è data a una grande opera di orchestrazione. Cosa significa? Significa che in ogni momento c’è una quantità di parti di batteria che possono essere suonate o meno, e qualcuno forse se ne farà carico. O forse non se ne farà carico e allora dovrà suonarle qualcun altro. O forse non le suonerà nessuno. Tutte le possibilità sono contemplate e soprattutto tutte sono potenzialmente previste: in questo modo, con la pratica e con l’andare avanti del tour, i tre batteristi assumono effettivamente una coesione invidiabile, tanto da farli sembrare un solo percussionista dotato di 6 braccia.

L’altro grande cambiamento del tour 2014 rispetto al passato è proprio quello citato poco fa: ogni musicista è lasciato libero di suonare un pezzo o non suonarlo, modificarlo o meno: l’errore è meno temuto di quanto fosse in passato e questo si traduce in un atteggiamento sul palco più rilassato da parte di tutti, Fripp in primis. L’algido Bob dichiara in tal senso che durante gli show del mini-tour 2014 è tornato a divertirsi sul palco così come non capitava da molto, molto tempo. Meno discipline/indiscipline (il dualismo che aveva bene o male dominato sulla musica dei Kc dal 1972 in poi) ma in compenso c’è una grande coesione tra i musicisti.

I più cinici tra i fan notano come Fripp abbia accuratamente evitato di infilare nella band qualcun altro che avesse una personalità forte come la propria, così invece aveva fatto in passato con Bill Bruford e Adrian Belew. Di fronte quindi a una band di ottimi comprimari quello che ne esce è una compagine che lo segue ovunque, ma deficitaria nel creare quella tensione verso l’ignoto che era il marchio di fabbrica. Si tratta di un’obiezione giusta e il cambiamento che c’è stato con questa nuova incarnazione di Crimso è probabilmente il più rivoluzionario dal 1980 in qua.

 

Appena finisce il tour, a ottobre 2014, Fripp annuncia l’uscita imminente di un album live. I fan, che in minima parte hanno avuto modo di ascoltare le uniche due registrazioni pirata del tour (coff coff) ma per la maggior parte hanno solo potuto immaginare quel che è successo sul palco, non stanno più nella pelle. L’entusiasmo però viene frenato quando si viene a sapere che l’album live uscirà, ma durerà solo 41 minuti. A fronte di due ore di concerto, dicono molti, è una fregatura!

Live at Orpheum è proprio questo album live, annunciato e poi stampato, e con i suoi 41 minuti è una specie di antipasto sonoro di ciò che si spera arriverà nel 2015. La scelta di selezionare solo pochi pezzi per la pubblicazione secondo me è stata ben meditata perché in questo modo non c’è troppa carne al fuoco e ci si può davvero concentrare su quello che sta succedendo sul palco virtuale dello stereo. La front line e la back line sono state mixate separatamente e i musicisti sono disposti sui canali stereo in modo da riprodurre fedelmente la formazione in concerto. Insomma, nonostante la breve durata è stato fatto ogni sforzo per riproporre un’esperienza più simile possibile a quella di chi ha potuto vedere la band onstage.

 

La scaletta presenta un excursus di pezzi dal 1971 al 2000. Ad aprire l’album è un’introduzione strumentale che cita il finale fantasma di Islands e sfocia in One more red nightmare, indimenticato rock tirato da Red (1974) che non era mai stato suonato dal vivo prima di questa tournée. Segue un intermezzo di percussioni intonate sullo stile di ShoGaNai (da HWWYHTBHW), stavolta eseguito a sei mani, che introduce il riarrangiamento dell’unico brano post-1974 del disco: The construKction of light. Il lavoro sull’arrangiamento qui è particolarmente evidente, nell’orchestrazione della batteria ma soprattutto nell’introduzione di una sezione centrale per flauto, ovviamente assente nell’originale. Trattandosi di un pezzo dell’era-Belew viene interrotto prima dell’inizio della parte cantata.

La facciata si conclude con uno dei brani più drammatici e ricchi di dinamica dell’intera discografia dei Kc, ovvero The Letters. E’ in questo pezzo che si nota nel modo più compiuto una caratteristica tecnica propria di Live at the Orpheum, ovvero una ampissima dinamica.

Il lato B presenta due grandi classici del tempo che fu, che mai ci si sarebbe aspettati di vedere presentati vicini in un disco contemporaneo: Sailor’s tale, strumentale parossistico con un violento assolo di Fripp stile “mandolino elettrico”, e il brano più bello di tutta la discografia dei King Crimson ovvero Starless. Questa versione di Starless ha creato delle divisioni tra gli appassionati: c’è chi trova che la mancanza della foga con la quale veniva presentata nel 1974 sia irreparabiile e tolga pathos al pezzo, soprattutto sul finale. Altri notano come invece la versione “a sette teste” raggiunga l’apice per un’altra strada, con un crescendo meno teso ma più ponderoso e possente. Difficile dire chi abbia ragione, quel che è certo è che questa strada, meno tension-release ma più controllo e dinamica, sarà la strada che Fripp vorrà percorrere con questa line-up. Non resta allora che ascoltare Live at the Orpheum fino allo sfinimento in attesa delle date del tour europeo del 2015 e dei nuovi brani che – si spera – verranno presentati in tale occasione.

 

Il re è morto. Viva il re!

 

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