Amleto a Gerusalemme – ascoltare chi ascolta

Stasera sono stato al Teatro Toniolo qui a Mestre a vedere uno spettacolo di Marco Paolini, Amleto a Gerusalemme. Si tratta di uno spettacolo che trae origine da una lunga serie di laboratori teatrali tenutisi in diversi anni nei territori ocupati palestinesi. Gabriele Vacis e Marco Paolini, con l’aiuto della cooperazione allo sviluppo italiana, hanno mescolato attori più o meno famosi di quella che è una scena teatrale giovane e non certo facile e hanno lavorato con loro per tirare fuori storie personali e dubbi universali, sulla base dell’Amleto. Insomma, hanno fatto teatro.
Il frutto di questi laboratori è diventato uno spettacolo e, in questi giorni, è in tour in Italia. Domani sera sarà di nuovo a Mestre, poi a Schio e poi ancora a Trieste per concludere la tournée a Ravenna (andate a vederlo!).

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Mentre assistevo allo spettacolo dal fondo della sala avevo una strana sensazione: quella sensazione di sta accadendo qualcosa di grosso che succede talvolta quando si è a teatro e avviene la magia della comunicazione sul palco: la tecnica, le luci, le scenografie, i movimenti, il testo, l’attore si mettono tutti insieme e ti arriva una botta di significato. Una botta che a volte non sai nemmeno come digerire e ti ci vuole tutto uno spettacolo per assestarti, capire in cosa sei immerso e gestire l’energia che esce dal palco. Mi sono trovato a pensare a quanto tutto questo fosse molto in linea con l’idea Frippiana di presenza dell’artista sul palco e di contemporanea presenza attiva del pubblico.

Arrivato a casa sono andato a leggermi un po’ di note sullo spettacolo, imbattendomi in questo PDF:

“In Amleto a Gerusalemme ci saranno alcuni dei ragazzi della scuola: Alaa, Bahaa, Mohammad, Ivan e Nidal. La loro presenza scenica ha qualcosa che i ragazzi italiani non conoscono. Dico ragazzi e non attori perché credo che non si tratti solo di presenza scenica, ma di presenza tout court. Chi vive in un paese occupato ha bisogno di stare in guardia continuamente. Ogni piccola faccenda quotidiana ha bisogno di attenzione. Grotowski diceva che gli attori, in scena, devono essere all’erta. La cosa più difficile da insegnare ai giovani attori italiani è stare all’erta, perché non ne hanno bisogno. Noi europei non ne abbiamo bisogno, siamo incredibilmente al sicuro in ogni momento e in ogni azione della nostra giornata, mentre gli attori palestinesi, come ogni palestinese (e come ogni israeliano), vivono l’essere presenti a se stessi come una condizione normale. Quindi in scena si può lavorare sul resto: raccontare storie, per esempio. Non è un problema il “come” raccontarle, perché se sei presente, qualunque cosa fai o dici, ha senso. Queste persone sono presenti perché vivono una realtà di violenza. Noi europei abbiamo conquistato settant’anni di pace: una cosa straordinaria, da rivendicare e da difendere con ogni mezzo. Ma sarà possibile difenderla senza la forza che viene dall’esperienza della violenza e del dolore?
La risposta a questa domanda può venire solo dall’incontro con la gente che questa esperienza la vive quotidianamente”

Questo essere presenti mi ha riportato di nuovo a quel concetto frippiano: può essere che sia stata la presenza degli attori sul palco, il loro esserci totale che ha permesso una comunicazione così esplicita, così massiccia? A darmi la risposta è stato un altro stralcio dalla presentazione, nel quale si parla della preparazione effettuata dagli attori:
“Io sto cercando da molti anni un mio modo di preparare gli attori, gli spettacoli, di costruire un luogo per l’improvvisazione. Questo luogo si chiama Schiera. È tutta una questione di ascolto: il teatro è una delle pochissime occasioni di comunicazione diretta. In teatro chi parla, può ascoltare chi ascolta. La Schiera serve ad allenarsi a questo: ascoltare chi ti ascolta. La si potrebbe definire drammaturgia dell’ascolto.”

Ecco, non so cosa sia esattamente la Schiera, l’unica cosa che ho intuito è che si tratta di un esercizio teatrale che comprende – come spesso avviene in questo genere di cose – contemporaneamente l’azione e la percezione dell’azione altrui, che si può di volta in volta decidere di seguire, contrappuntare o contrapporre, però consapevolmente. Anche questo mi sembra molto, molto frippiano e crimsoniano: ascoltare chi ascolta altro non è che entrare in quel gioco di feedback che eleva l’arte, quello di cui Fripp parla sempre e che coloro tra di noi hanno avuto la fortuna di vedere Crimso dal vivo hanno avuto modo di percepire.

Ulteriori informazioni: https://www.teatrostabiletorino.it/portfolio-items/amleto-a-gerusalmme/

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