Animals

“Riavvolgo il nastro per la terza volta e la musica riprende. Non mi stancherei mai di stare sdraiato sul letto ad ascoltare Animals dei Pink Floyd.
È per me uno degli album più coinvolgenti e sconvolgenti, quella musica piena di dissonanze, di ritmo che cambia ogni momento, di provocazioni. Ogni volta che mi adatto a quella musica, che incomincio a capirla e a goderla, il ritmo cambia all’improvviso, e ricomincia diverso.
Mi sento indagare dentro da quei suoni spietati, come se strappassero la tendina dell’inconscio, se rompessero tutte le barriere e protezioni, per metterti davanti a quello che sei, anzi per mettermi davanti a quello che sono. Così i Pink Floyd mi forzano a pensare, a percorrere sensazioni sempre ricacciate indietro perché mi hanno sempre fatto paura.
Cosa direbbe di me mio padre, se mi vedesse qui sul confine del Pakistan? Come mai mi è venuto in mente mio padre? È morto più di vent’anni fa, quando ero ancora un ragazzo. Sarà perché oggi sono stato al bazar e ho visto tante biciclette…
Mio padre era sempre in bicicletta. Tornava dal lavoro con la sua tuta blu sporca di grasso, e pedalava veloce. Io lo seguivo di corsa finché la bici finiva in una rastrelliera giù nel cortile e io potevo stringermi ai suoi calzoni.
Non so perché la tuta da lavoro, nel dialetto di Milano, si chiamasse “il toni”, mi piaceva l’odore del grasso e dell’olio dei motori.
Mi portava spesso con sé, e io facevo gracchiare il campanello, seduto un po’ scomodo sul tubo nero di quella bici pesante, mentre andavamo per i sentieri della periferia di Sesto San Giovanni.
I sentieri della memoria, dei giorni che ho percorso con quell’uomo straordinario, operaio che sapeva far tutto con le sue grandi mani, che ha fabbricato tutti i miei giocattoli di legno, compreso il fortino dei soldati con la cassetta del comando e la stalla.
Autodidatta colto e raffinato, che amava l’opera e mi teneva in braccio cantando con voce da baritono e faccia scura “Quell’uom dal fiero aspetto…”. E io che scoppiavo a piangere. Come mi commuovono ora quelle chitarre acustiche dal timbro altissimo, quella batteria che sembra scandire l’arrivo del giudizio universale…
Anni dopo mio padre avrebbe usato la stessa bici per venire a vedermi giocare al pallone. Poi, quando si è ammalato, l’ho usata io la sua bicicletta, per i primi appuntamenti con quella che sarebbe diventata la mia compagna nella vita.
L’ho usata finché mio padre è morto, poi non l’ho più toccata. L’ho lasciata lì a morire anche lei, di ruggine, in quella rastrelliera in cortile.
E non sono scoppiato a piangere quella volta, perché sapevo che sarebbe stato un pianto senza fine e non potevo, non volevo permettermelo.
Cosa direbbe di me mio padre, a vedermi così lontano da casa? Anche lui se ne è andato presto, dannatamente troppo presto per me. Ma lui non l’ha mai voluto, semplicemente non ha avuto scelta.
Io invece potrei fare a meno, potrei essere a casa con Teresa, e con Cecilia, a portare la mia bambina in bicicletta. Perché, invece, mi trovo lì, in quella stanza fredda tra le montagne del Baluchistan?
Il lavoro. Quello strano impulso di affermarsi che, come dice Teresa, “è così essenziale per voi uomini”. Il lavoro prima di tutto, prima degli affetti, della famiglia, il lavoro come mezzo di autorealizzazione.
Ma no, non è così. È che qui sto facendo qualcosa di utile, che mette d’accordo la mia professione con la mia opinione sulla vita e le sue vicende. Voglio credere che sia così.
In fondo sono le stesse idee, quelle che mi facevano sfilare in cento cortei nel Sessantotto e che ora mi hanno portato nel Baluchistan. Idee di solidarietà, consapevolezza di essere in qualche modo in debito, ciascuno di noi, verso i più sventurati della terra.
E qui ce ne sono tanti, che si ritrovano mutilati, o con una scheggia di bomba nella pancia, senza colpa.
Molti di loro non sopravvivono, non riescono a sopportare il lungo viaggio sulle montagne, a dorso di mulo, qualche volta stesi su un carretto. Arrivano sporchi e sfiniti al nostro ospedale, con il turbante e la barba pieni di terra, i vestiti stracciati e incrostati di sangue… E’ giusto che ci sia qualcuno ad aspettarli, è umano.
No, no. Ancora una volta una spiegazione di copertura, bella e comoda, di quelle che gratificano e fanno tornare i conti, che piacciono perché fanno il lifting, perché mettono in pace quello che hai dentro e lo giustificano con quello che appare al di fuori.
Sono qui, piuttosto, perché non ho mai retto la routine, per soddisfare la mia voglia di viaggiare, curiosare e non solo. Perché è una sfida che rompe la monotonia, tanto più affascinante quanto più difficile.
Riuscire a farcela, riuscire a vincere, come fosse un gioco. E forse è un gioco, un gioco di fantasia, di avventura…
Come quando andavamo in bici, io e mio padre, nei prati vicino a casa: allora bastava un boschetto o un ruscello pieno di rane per farmi sognare, ora mi serve di più.
Maledetti Pink Floyd, che dividono la mente e ti fanno discutere con te stesso, sdoppiato. Quello che sei e quello che vuoi essere, quello che dici e quello che pensi. E in fondo so benissimo chi ha ragione, tra i due contendenti, e chi sta recitando la commedia, ed ecco che arrivano angosce e rimorsi, come la carica dei 101. Bussano alla porta…
No, niente dalmata, è Glen, la capo-infermiera neozelandese, che mi piomba in camera come un ciclone. “Ehi, ti ho chiamato dieci volte e non hai mai risposto! A che stai pensando?”
“A una bicicletta.”
“Non stai bene, are you sick?”
“I’m ok, I’m fine”
“Dobbiamo andare in ospedale”
È arrivato un altro di quei disgraziati, dei quali, comunque, sono qui a occuparmi, a interrompere impossibili dialoghi con mio padre e difficili confessioni a mia figlia.
Meno male, non sempre si riesce a guardarsi dentro fino in fondo, e quando lo si fa è difficile e scomodo scrivere quel che si è visto.”

Gino Strada, Pappagalli verdi

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