Fear Inoculum

Quello che ho fatto con Fear Inoculum è stato prendere il disco appena uscito, infilare le cuffie e ascoltarlo tutto di fila. A sera, stanchissimo, senza testi sottomano.
Non è una pratica particolarmente originale, però quanti sono i dischi per i quali mi permetto (anzi, ci permettiamo) ormai di farlo? Il risultato è stato esaltante.

Questo è quello che mi sono scritto, come annotazione, appena finito l’ascolto: “Ascoltare Fear Inoculum è stato come immergersi in una vasca di mercurio, come mangiare una tinozza di crema al mascarpone. Mi ha ricordato le sensazioni che ho provato quando ho visto interstellar, mi ha risvegliato delle emozioni che mi hanno ricordato i primi ascolti degli Yes, dei Pink Floyd, dei VDGG. Quella sensazione che hai quando ascolti qualcosa di denso, ricco di idee, che si muove in continuazione da un punto all’altro riuscendo a trasmetterti solo una frazione della quantità di idee che contiene. Con Fear Inoculum i Tool sono riusciti a fare in studio quello che hanno sempre fatto dal vivo, ovvero prendere le idee di un brano e dilatarle fino a renderlo una versione gonfiata di se stesso. Masticare i brani, rimasticarli, smembrarli per poi ricomporli.”

I sei pezzi del disco (CCtrip non la contiamo, dai) sono lunghissimi ma durante l’ascolto ho avuto la sensazione fin dal primo ascolto che nessuna sezione fosse inutile, che ci fosse una decisione dietro a ogni nota. Un brano dopo l’altro la mia mente si è persa, accontentandosi di riconoscere i riff che ritornano a metà o alla fine del pezzo e abbandonandosi al proseguire della musica. Immerso nell’ascolto a occhi chiusi ho cominciato a vedere cose, a sognare cose, alcune palesemente auto-ispirate alle opere di Alex Grey per i Tool e altre più simili all’esperienza di un concerto. Un trip di 80 minuti, un viaggio.

Da quella sera ho ascoltato l’album in maniera quasi ininterrotta e non ho ancora smesso di stupirmi e meravigliarmi. Rispetto ai precedenti album dei Tool le canzoni sono delle jam infinite, plasmate fino a diventare dei brani veri e propri, e questa veste Gratefuldeadiana inaspettatamente si addice molto bene allo stile dei Tool maturi. In passato c’era l’urgenza di dire qualcosa o di essere qualcuno; ora che i Tool sono famosi, addirittura mitologici, e possono permettersi di impiegare 13 anni per fare un disco, questa urgenza non c’è più. Sostituita, per fortuna, da una piena e solida autorevolezza.
Le strutture delle canzoni sono state palesemente composte dai tre musicisti in assenza di Maynard, che a disco ormai realizzato si è trovato – spazientito dagli anni di attesa – a comporre le linee vocali su musiche che stavano benissimo in piedi senza. La sua soluzione è stata quella di intervenire in maniera sottile. Non ci sono ritornelli in Fear Inoculum, non ci sono inni come Parabol. Le parti vocali nella maggior parte dei casi rimangono nelle sezioni più quiete dei brani e lasciano che le esplosioni, più rare e ponderate che in passato, siano gestite dagli strumenti. Una scelta di comodo, dato il decadimento della voce di Maynard negli ultimi 10 anni, ma anche una scelta di stile che giova al bilanciamento delle forze nel disco.

Fear Inoculum è un album che tira i remi in barca dal punto di vista dell’innovazione ma alza l’asticella della potenza e della precisione. È il loro Animals, è un disco che a molti sembrerà inconcludente e involuto ma per chi sa sintonizzarsi sulla giusta frequenza si schiude come un fiore e rivela un turbine di idee musicali e sonore. “Sonore” è un termine da tenere in mente perché se Fear Inoculum è un discone lo dobbiamo anche alla precisissima, maniacale scelta dei suoni e dei volumi. Ogni riff, ogni assolo, ogni passaggio è suonato con lo strumento giusto con il suono giusto e il giusto bilanciamento, eppure non avverto mai ascoltandolo quella sensazione di “artefatto” che capita con dischi anche più famosi ma un po’ troppo precisini.

E soprattutto quando finisce mi viene voglia di riascoltarlo da capo. Ogni volta.

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