In una città straniera

Peter Hammill 88 In A Foreign Town

L’altroieri ho acquistato In a foreign town di Peter Hammill, conquistato dalla bella copertina e dalla presenza in scaletta di Sci-Finance (seppur revisited).

Tornato a casa poi ho scoperto ciò che mai avrei sospettato, ovvero che si tratta del disco meno apprezzato dai fan di Hammill! Al che mi sono detto: ma dai, si dice sempre che le peggiori cose di PH sono in fondo più pregevoli dei migliori prodotti di tanti altri, vuoi che non sia anche questo il caso?

In effetti il disco sfugge alle semplici interpretazioni. I suoni sono davvero molto anni ottanta, pomposi e pieni di riverbero, e non mi stupisce che a suo tempo molti abbiano storto il naso. Però l’ispirazione non manca, ci sono dei grandi classici (Time to burn, Auto) e quasi tutti i brani risultano ispirati ed eterogenei.

Quello che più mi ha stupito però è che i suoni plasticosi di questo album non mi danno fastidio, assumono un significato diverso da quello che hanno in molti altri dischi ascoltati dopo trent’anni: cristallizzano la musica, la tirano paradossalmente fuori dal tempo; non so se dipenda dalla voce di Hammill o dagli arrangiamenti comunque molto curati ma In a foreign town sembra un disco che proviene da un altro mondo, un mondo diverso eppure simile al nostro, un mondo alle prese con la finanza e l’apartheid i cui abitanti ricordano Shakespeare e vivono problemi relazionali simili ai nostri, ma comunque un mondo altro.

È un po’ come quando si guardano i film anni cinquanta, sospesi in quell’atmosfera da Diner che non sai bene se era proprio così davvero, oppure se è il cinema che riveste tutto di una patina plasticosa e malinconica, per quanto allegra. Ecco, In a foreign town riesce nell’impresa di fare la stessa cosa ma per un’epoca post-bachelite, per gli anni ottanta.

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2 commenti su “In una città straniera

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