Is this the record we really want?

Come si fa a fare rock a 74 anni?
Come si fa a fare un disco rock di protesta a 74 anni?
Come si fa a fare un disco rock di protesta mettendoti dalla parte dei più deboli quando hai 74 anni e sei ricco sfondato?

Queste sono le domande alle quali Waters ha dovuto rispondere con Is this the life we really want. La buona notizia è che si sente che ha cercato ha lungo una risposta, la notizia meno buona è che non si tratta di una risposta perfettamente a fuoco.

Una cosa va detto subito: le canzoni del disco, di per sé, sono belle. Non saranno tutte bellissime ma almeno nessuna è brutta e alcune, come The last refugee, Picture that, Broken bones e la title track, sono ottime. Purtroppo però soffrono – tutte – di due problemi:

1- si somigliano tra loro. Midtempo, chitarra acustica + tastiere à la WelcomeToTheMachine + un po’ di archi. Inizia un pezzo e non lo riconosci, finisce uno e ne inizia un altro e a livello di dinamica non cambia niente e questo rende l’album pesante da ascoltare. Il capolavoro di Waters – the final cut – aveva lo stesso problema di somiglianza interna dei pezzi e lo risolveva con un uso estremo della dinamica. Qui non avviene e l’ascolto risulta affaticante.

2- le canzoni somigliano ad altri pezzi del passato. Almeno metà dei brani fa venire voglia di cantarci sopra Southampthon Dock o The Final Cut. Per chi conosce la discografia solista di Cavallone immagino ci siano chissà quante altre “citazioni”. Anche nei testi ci sono continue strizzate d’occhio a pezzi del periodo Floydiano, così come negli arrangiamenti di Bird in a gale e The most beautiful girl spuntano echi spudorati di The Wall o Animals, e in molti altri pezzi si sentono gli stessi trucchi armonici e le stesse progressioni vocali.

Ascoltando e riascoltando il disco mi sono immaginato di poter cancellare, per un’ora, tutti gli ascolti di Wish you were here, di The final Cut, di The Wall, e di poter sentire questo disco come primo approccio alla discografia di Waters. Sono sicuro che mi farebbe un’ottima impressione, perché il disco è coeso e colpisce nel segno. Per mia fortuna però i Pink Floyd li ho ascoltati in lungo e in largo e non posso ignorare che una buona fetta delle soluzioni vincenti di “Is this the life we really want” siano più che ispirate ai capolavori del passato. Anche la scelta coraggiosa di mettere le chitarre in secondo piano e far avanzare le tastiere viene gestita con dei suoni e dei temi che riportano a brani antichi, a volte in maniera davvero spudorata come in Smell the roses. I tributi che Roger Waters fa a se stesso sono così evidenti che non possono essere involontari, quindi si crea un corto circuito: vorrà dirmi qualcosa con questi rimandi? Oppure ha finito le idee e cade sempre in soluzioni che ha già usato in passato? Purtroppo nella musica contenuta nel disco non ci sono gli indizi per capirlo, così l’ascoltatore rimane sospeso fra i dubbi ad ogni riascolto.

Nei testi Waters si pone esplicitamente contro i potenti: contro Trump in primis e contro l’occupazione palestinese ma anche contro un sistema politico che allontana le persone tra loro e le distanzia sempre più dal potere. Il dramma dei rifugiati viene citato in più parti, sia nel suo pieno compiersi come nel testo di The last refugee sia alla radice, nelle cause delle migrazioni descritte in Dejà vu. I testi sono ricchi di immagini ed è curioso notare come la poesia di Mahmoud Darwish tradotta in Wait for her si incastri perfettamente con gli altri testi del disco; quelle di Waters sono delle poesie in musica, talvolta nel vero senso della parola dato che alcuni testi sono adattamenti di poesie scritte anni or sono.
La ricchezza di immagini ci rivela che Waters vuole darci una lezione e non solo esporre una riflessione o uno sfogo. Si percepisce il desiderio di lasciare il segno e la risposta alle tre domande iniziale sembra essere: “ho 74 anni, sono ricco sfondato e ho tutta l’intenzione di usare la mia influenza e la mia età per lasciare un solco, alzare la voce, far sapere come la penso e mettere in discussione le idee di chi non la pensa come me”

Da questo punto di vista Waters è un vincente perché ha scelto di non tradire il proprio passato e di continuare con una proposta politica. Chiedere un disco che fosse notevole anche a livello musicale sarebbe forse stato domandare troppo, quindi accontentiamoci di ciò che abbiamo in mano: un album non del tutto riuscito, che musicalmente stancherà in fretta ma che ha il pregio di mostrare il punto di vista di Waters in modo trasparente e vigoroso. Un punto di vista lucido anche se limitato perché non va molto oltre alla domanda che campeggia sulla copertina: “è davvero questa la vita che vogliamo?”

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