King Crimson @ Hackney Empire, Londra, 7 settembre 2015

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“All the music is new, whenever it was written.”

Ecco il grande assunto frippiano degli anni dieci: tutta la musica si può approcciare come se fosse nuova, non importa se si tratti di un classico di quarant’anni fa o di una composizione nata poco prima durante il souncheck. Grande paraculata oppure la sincera epifania da parte di un quasi settantenne che finalmente si è accorto di aver scritto più capolavori in gioventù che durante la maturità? Questa è la prima e più ingombrante domanda che incombe sulla bestia a sette teste, ed è una domanda alla quale non è facile dare risposta.

Sarebbe facile bollare i Crimso del 2015 come passatisti e nostalgici perché in parte lo sono: Fripp infatti per questo tour non si è limitato a tirare fuori dal cassetto i classici dei primi anni ma l’ha fatto con l’apparente e scientifico fine di creare una specie di “scaletta dei sogni” di ogni appassionato. Starless, Schizoid Man, In the court of the Crimson King, Easy Money, Epitaph, Larks’ tongues in aspic part I, Sailor’s Tale. Nemmeno il più disperato dei fan urlanti avrebbe osato richiedere tanti e tali pezzi all’arcigno signore Cremisi: eppure è esattamente questa parte della scaletta che è stata proposta nel tour europeo. Una scaletta non solo aperta al passato ma spudoratamente sbilanciata: nella serata del 7 settembre 10 brani su 18 provenivano da dischi pubblicati negli anni settanta, 6 erano inediti e solamente due provenivano dall’ampio spettro dei dischi dell’era Belew, dal 1980 al 2003.

Eppure, dalla prima nota emessa dal contrabbasso di Levin fino all’ultimo rantolo di Schizoid Man, assistendo al concerto di Londra non ho avuto per un solo secondo l’impressione di avere davanti una band nostalgica, non ho avvertito una sola nota di autocompiacimento. Forse il segreto sta proprio nella scelta della band e del repertorio: il settetto è composto da personaggi così eterogenei che, a parte Fripp, nessuno dei musicisti sul palco aveva suonato nella versione originale di più di tre pezzi in scaletta.

Tutto ciò per dire che questa incarnazione dei King Crimson è un gran casino, ammettiamolo. Da un lato sembra fatta apposta per ingraziare il pubblico, con le tre batterie pirotecniche, il pifferaio riesumato, il cantante melodico, il bassista impeccabile; dall’altro è una specie di chimera pronta ad ogni tipo di evoluzione, soprattutto le più inattese, e può mettere in crisi lo spettatore. Come approcciare una formazione così?
Me lo sono chiesto anch’io prima dello show all’Hackney Empire. Ero nervoso prima del concerto, e non solamente perché mi avevano appena sequestrato la macchina fotografica (questa la racconto un’altra volta) o perché in sottofondo ci fosse un tappeto di soundscapes piuttosto inquietanti. Ero nervoso perché attendevo questo concerto da dodici anni, ma non sapevo cosa aspettarmi.

“Expectation is a prison”

Così recita il famoso adagio frippiano. Ma è umano presentarsi privi di aspettative di fronte ad una formazione che andrà a pescare da tutte le incarnazioni della band? Quando li vidi nel 2003 al massimo potevo sperare che avrebbero fatto Elephant Talk, Thela, Red, The construKction of light ma martedì 7 settembre mi agitavo nervoso sulla mia sedia attendendo una band che avrebbe potuto, per la prima volta nei 45 anni di storia crimsoniana, suonare qualsiasi cosa. Perché è stata costruita a tavolino esattamente per poter suonare qualsiasi cosa. Infine, non lo nascondo, ero infastidito anche dalla nostra posizione infelice nel teatro: in fondo alla quinta fila della platea, dai nostri ultimi due posti io e Marty non riuscivamo a vedere né Mastelotto né Mel Collins, coperti da una piantana con dei fari. Brutto affare.

La sezione ritmica: Mastelotto, Rieflin, Harrison, l'infiltrato Tony Levin

Gli show di questo tour iniziano tutti con una lunga soundscape. Come ha spiegato Tony Levin nel proprio diario, si tratta musica che viene composta da Fripp nel pomeriggio stesso, mentre sistema il proprio gigantesco rack di effetti. La band arriva sul palco prima che il pezzo finisca, tra gli applausi del pubblico, e in qualche modo si inserisce sul pezzo di sottofondo. Nel caso dell’Hackney empire è Tony, con il contrabbasso elettrico, a varcare per primo la soglia tra la registrazione e la performance, seguito da Mel Collins con il flauto. Pochi secondi di warm-up prima di uno stormo di campanelli ad annunciare l’inizio di Larks’ tongues in aspic part I.
Immaginate di trovarvi davanti ad un macchinario molto complesso, ad esempio una rotativa, una di quelle che stampano i quotidiani. All’improvviso, tutta insieme, la macchina si mette in moto. È davanti a voi, è gigante, si muove tutta insieme ma ogni pezzo a suo modo, compiendo azioni di cui non sempre potete cogliere il senso immediato. Ecco, la sensazione che provo nel momento dell’attacco di Larks’1 è la stessa e sono completamente soverchiato, senza sapere dove guardare e a cosa prestare attenzione: lasciarmi invadere dalla musica nel suo complesso oppure coglierne i piccoli particolari e le differenze rispetto alle versioni che conosco già a menadito? Osservare la band con sguardo ampio oppure cercare di cogliere i piccoli particolari dei movimenti? E quelli di chi?

Impiego circa tre pezzi per capire che non c’è niente da fare, non si può districare il dilemma: da un lato sette musicisti sono troppi per prestare attenzione a ciascuno di loro senza perdere di vista gli altri, dall’altra ci pensano loro stessi, inserendosi o meno all’interno dei brani, ad attirare la mia attenzione di volta in volta. Trascorsa Larks’I sono felice, inebriato ma anche sottilmente infastidito da questa sensazione di impotenza. Durante Pictures of a city la sensazione si acuìsce.
Fortunatamente a questo punto accadono due eventi che fanno da spartiacque alla serata: innanzitutto occupiamo i due posti vuoti accanto ai nostri, confidando nel fatto che nessun vero fan dei Crimso comprerebbe dei biglietti in quinta fila per poi presentarsi in ritardo. Giusto il tempo di spostarsi e i Crimso intonano un pezzo mai sentito, e qui non ho scelta: vanificata l’idea di curiosare in ogni istante cosa stessero facendo i musicisti sul palco mi abbandono, ascoltando queste note così nuove alle orecchie di tutti i presenti.

Come sono i pezzi nuovi, mi chiederete? All’Hackney ne vengono messi in scaletta in realtà solo due, “Radical Action (To Unseat the Hold of Monkey Mind)” e “Meltdown”. Il primo è una specie di introduzione a quest’ultimo che si presenta come un brano cantato e di media lunghezza. Stilisticamente è un bignami della Crimsonaggine: ci sono i riff di chitarra tranchant stile Level 5, ci sono le interlocking guitar come in Frame By Frame, c’è (e questo è un po’ straniante) una melodia cantata tipicamente Jakko-style al di sopra sia delle interlocking guitar che del riffone alla Level five. Contemporaneamente. Se c’è qualcosa del repertorio noto al quale potrebbe somigliare è sicuramente un mix di Separation (dal tour box del 2014) e il soundcheck di San Francisco pubblicato nel tour box di quest’anno. Anzi, sono abbastanza convinto che quello che stanno provando in quel minuto di soundcheck sia proprio uno dei riff di Meltdown. Un ascolto è ovviamente troppo poco per poter dire di più ma mi sembra un buon pezzo, anche se ho delle riserve sul cantato di Jakko. Ma quelle le ho a prescindere.

londonvenue1Riserve o meno, Meltdown funziona a meraviglia come chiave di lettura e da lì per me è tutto in discesa, pur permanendo la sensazione di trovarmi davanti ad un intenso e muto scambio di energie tra la band e il pubblico. E quando dico muto intendo realmente muto, dato che nessun componente della band proferisce parola prima, durante o dopo il concerto. Nessuno thank you, nessun saluto: in questo senso la mancanza di Belew, che sapeva sorridere agli spettatori e sdrammatizzare all’occorrenza, si sente eccome. Nessuna presentazione nemmeno per i brani nuovi, suonati esattamente con la stessa concentrazione ed intensità dei grandi classici: ascoltatori disattenti potrebbero legittimamente scambiare Meltdown per un pezzo degli anni ottanta, per un brano minore di The power to believe, per una rivisitazione di altro ancora. Ma ad un concerto dei Crimso mark VIII non è solo il comportamento della band a dimostrare un’incredibile concentrazione: anche il rapporto con il pubblico sottolinea questa tensione. La richiesta di non fare foto, esibita in ogni maniera possibile prima del concerto, porta il pubblico a concentrarsi sul qui-ed-ora e a compiere la fatica concreta di riempire la distanza tra il palco e la platea. Musicisti e pubblico, uniti dalla concentrazione sulla musica che si rivela, collaborano per portare lo show ad un livello più alto. Non sono fandonie new-age ma un’energia percepibile in quei momenti ed esplicitamente residua nell’adrenalina alla fine del concerto; e tutto questo avviene nonostante non ci sia alcuno scambio verbale e nemmeno – ed è uno dei problemi di questo gruppo – un vero e proprio frontman.

Dopo i due pezzi inediti riesco finalmente a lasciarmi andare e concentrarmi senza sforzi talvolta sulla musica nel suo complesso, talvolta nelle singole parti, ed è l’inizio di una guduria immane. The construKction of light, uno dei miei brani preferiti di tutta la discografia Crimso, suona già bene nel live at Orpheum ma è ancora migliore se puoi seguire con gli occhi i folli intrecci di batteria che ne punteggiano la struttura: sarebbe sicuramente la best version ever se non sentissi la mancanza della parte cantata. Segue The Letters, con uno Jakko inatteso ed ottimo interprete, e siamo all’acme emotivo del concerto che  prelude ad una versione di Sailor’s tale davvero infuocata. Pensi che non possa andare meglio quando inizia Starless, che varrebbe da sola il prezzo del concerto. Sembrano saperlo benissimo anche loro tant’è che riservano a questo pezzo l’unico cambio luci di tutto lo show: in pochi secondi, all’inizio del crescendo centrale, i fari sprigionano un rosso intenso mentre i King Crimson si gettano a capofitto in quel delirio che è la seconda parte del pezzo. Brividi. Fra l’altro, per gli amanti della precisione, Fripp ha abbia aggiunto un paio di battute prima della ripresa finale del tema di chitarra: una scelta coraggiosa ma giustificata dato che mi è sembrato che, rispetto al live at Orpheum, in quelle due battute siano riusciti ad accumulare una maggior carica per poi esplodere nel finale. Starless peraltro conferma l’ipotesi su Rieflin: a lui viene affidato il compito del crescendo centrale e si rivela perfetto per questo ruolo, potente ma preciso e soprattutto diagonale quanto serve.

Hackney Empire - interno

Con Starless si chiude il set, e non potrebbe essere altrimenti: la pausa che segue sembra più funzionale a lasciar decantare le ultime note nelle orecchie e tra i muri dell’Hackney Empire che a lasciare tempo al gruppo di riprendere fiato, tant’è che dopo pochi istanti ritornano sul palco per i bis.
Il primo bis, Devil Dogs Of Tessellation Row, è un trio di batteria: si tratta del terzo interludio di sole percussioni della serata e sicuramente è il migliore. Di seguito esplode inaspettatamente (per me almeno, non essendomi documentato sulle scalette delle serate precedenti) In the court of the Crimson King, forse ancora un po’ da rodare: o forse è un pezzo che non è proprio nelle corde di questa band. Finita ITCOTCK il gruppo si ferma, il pubblico si calma ed in sottofondo partono i familiari effetti sonori dell’inizio del primo album del gruppo, ottenuti da Ian MacDonald attraverso un organo a canne. I più sgamati tra il pubblico sanno già cosa aspettarsi, i musicisti si tengono d’occhio per essere sicuri di sincronizzarsi e parte al galoppo una fulminante versione di Schizoid man.
Su Schizoid man si sprigiona, come già in Larks’ I, Level 5 e Sailor’s tale, l’intera potenza di fuoco della band: l’incedere è contemporaneamente cadenzato ma rutilante, il tempo viene scomposto in mille maniere ma si mantiene alta alta la tensione; se Crimso appare quando c’è della musica che dev’essere suonata, questa band riesce ad evocarlo senza difficoltà. Anche Schizoid Man come Easy Money presenta una sezione centrale esplicitamente indisciplinata e anche qui il gruppo opta per un escamotage, purtroppo meno riuscito di quello precedente: in pratica all’inizio di Mirrors i tre batteristi si gettano in un breve impromptu di percussioni che mantiene come base il giro di batteria molto creativo di Mike Giles fino a che piano piano rimangono solamente Harrison e Mastelotto. Alcuni secondi dopo anche quest’ultimo si stacca e rimane il solo Harrison che prosegue l’intermezzo sotto forma di assolo. L’idea potrebbe anche funzionare se sulla base ritmica di Harrison si alternassero Jakko, Fripp, Levin e Collins, il che purtroppo non accade e si sfocia nel classico assolo di batteria piuttosto fine a se stesso. Il tema di Mike Giles viene gradualmente abbandonato fino ad un solo tristemente standard, per quanto interessante. Se non altro Harrison ha il buon gusto di non rallentare troppo e quindi può riprendere senza stacchi eccessivi l’ostinato che prelude al finale del pezzo. Lancia un’occhiata agli altri e Fripp si introduce con l’ormai classica (vedi il tour del ’96) nota lunga che introduce la ripresa del tema del pezzo e – a seguire – lo staccato. Qui ovviamente l’attenzione è sui tre batteristi, i quali decidono di interpretare le mitragliate all’unisono con la chitarra in maniera diversa: chi sul rullante, chi su diversi tamburi, chi sui piatti, creando un effetto più coeso e meno marziale. Riprende la strofa ed è gran finale, con tutte le sette teste del Mighty Crim scatenate fino al parossismo. Luci in sala, applausi, inchini dei musicisti – ognuno nella propria posizione, un senso di pienezza e confusione.

Scrivo queste note adesso, dopo più di venti giorni, perché è stato davvero difficile mettere insieme le sensazioni di quella sera. L’impressione è quella di aver assistito a qualcosa di grande, ad un gesto creativo corale e ad una performance di livello stellare. La concentrazione, il rischio, la volontà di spingersi nell’improbabile erano lì – presenti – e sono ciò che fa sì che Crimso si manifesti.

Ma quindi? E la band?

sndch2_london2La band è solida, anche se volutamente sbilanciata. Le batterie, per quanto i tre batteristi siano quasi telepatici, a volte finiscono per invadere lo spettro sonoro. Considerando che non c’è alcun plexiglas a frenare le bordate sonore dei tre set è chiaro che nelle prime file le percussioni finiscono per essere preponderanti nel mix. Mastelotto è il motore ritmico principale e sembra suoni tutto per istinto, anche nelle parti più complesse: non sembra mai in difficoltà e raramente guarda gli altri; inossidabile, soprattutto considerando il P@t di quindici, venti anni fa. Rieflin è il collante della band, non per nulla è stato piazzato al centro: si divide fra tappeti di mellotron e la batteria ma quando pesta sul suo kit, più piccolo degli altri due, dimostra di avere un suono preciso e intelligente. Forse, fra i tre, è quello con lo stile più prettamente Crimsoniano (you know what I mean, Barley Butsford) anche se sembra sempre un pesce fuor d’acqua. Harrison, infine, sembra un po’ defilato ma quando parte è chiaramente il più tecnico e virtuoso dei tre: da solo potrebbe coprire le parti di due batteristi e la sua presenza arricchisce di colore, senza contare che a quanto pare è sua la responsabilità della maggior parte degli arrangiamenti dei pezzi per tripla batteria. Insieme, Mastelotto Harrison e Rieflin formano una vera e propria front line, nel senso che occupano la maggior parte dell’attenzione degli spettatori. Fripp probabilmente ha imparato la lezione di Muir+Bruford nel 1972 e sa quanto due percussionisti possano rubare la scena. Per non essere sicuro di essere troppo al centro dell’attenzione ha pensato bene di aggiungerne un altro e piazzarli davanti: a quel punto non corre alcun rischio di essere troppo al centro dell’attenzione e può perfino permettersi di suonare illuminato dai fari.

Dietro ai tre batteristi, Mel Collins è l’altra grande sorpresa. Sempre puntuale negli interventi e paziente nei momenti in cui non interviene, emana autorevolezza da tutti i pori. Più a destra svetta Tony Levin che è evidentemente il più penalizzato dalla nuova formazione: se infatti con un solo batterista è possibile creare una sezione ritmica e un interplay serrato, e con due batteristi è ancora possibile benché più difficile, con tre batterie la sezione ritmica si esaurisce con la front row perché non c’è modo di introdurre una quarta figura, l’attenzione è già al massimo. Levin è impeccabile o quasi, detta il tempo e si destreggia nelle parti soliste, però risulta spesso sovrastato dalle grancasse e dai timpani nel mix e condannato a non poter intervenire nelle decisioni dei tre percussionisti per quanto riguarda l’accelerare, rallentare o far cambiare direzione al brano. In effetti quando mai si è visto un bassista che suona un metro e mezzo indietro rispetto al batterista, che nemmeno lo vede? Poi magari mi sto sbagliando e tutti e tre i batteristi in cuffia hanno Levin, ed è un elemento fondamentale, però l’impressione che ho è questa, che si tratti cioè di un virtuoso messo un po’ da parte.

sndch_london2A destra di Levin c’è Jakko, alle prese con le parti chitarristiche e vocali dei grandi classici Crimso, un’impresa titanica e che richiede una grande dose di personalita, della quale purtroppo Jakko deficita. Non che non sia bravo, anzi nelle parti di chitarra intrecciata con Fripp è veramente impeccabile, così come nei riff pesanti di Level Five o One more red nightmare, ma sembra voler essere la mediana perfetta tra tutti i frontman che hanno calcato il palco con i Crimso, senza avere il carisma per essere nessuno di essi. Canta bene ma in modo piatto, senza dare profondità reale ai testi se non in rari casi, come nella versione da brividi di The Letters. Anche dal punto di vista chitarristico non si prende libertà, non si produce in assoli con uno stile proprio e alternativo: anzi, tutte le parti soliste di Belew e quelle di violino di Cross vengono immancabilmente devolute a Mel Collins. Un’idea interessante, certo, ma a volte sarebbe stato bello sentire anche cos’avrebbe avuto da dire Jakko Jakszyk stesso: in fondo quando qualcuno entra a far parte dei Crimso acquisisce una qualche forma di diritto di mettere mano alle partiture chi di l’ha preceduto. Invece no, Jakko preferisce un very low profile non troppo distante da quello di Fripp che gli siede accanto.
Ecco, Fripp che gli siede accanto è l’elemento più enigmatico di tutto l’ensemble, come sempre. Fermo immobile, apparentemente algido eppure quando serve infuocato sul manico della chitarra, lavora in sottofondo per lunghe sezioni dei pezzi attendendo il momento migliore per emergere. All’Hackney mi ha fatto tremare la spina dorsale su Sailor’s tale, e vederlo suonare l’incipit di Starless è realmente emozionante.

“We don’t do 21st Century Schizoid Man
But we’re the King Crimson band”
The King Crimson Barbershop, 1983

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E la scelta dei brani?

La scaletta dell’elements tour 2015 è stata piuttosto variabile, anche se non troppo, con un pool di 25 pezzi dai quali venivano estratti 19-20 brani ogni sera. Concerti lunghi, per il Crim-standard, da circa due ore se non di più. I brani che hanno suonato all’Hackney il 7 settembre sono stati tutti quelli che avrei voluto sentire, francamente non avrei potuto immaginare scaletta migliore.


Walk On: Monk Morph Chamber Music (Pre-recorded outro to Islands)

Larks’ Tongues in Aspic, Part One
Pictures of a City
Radical Action (To Unseat the Hold of Monkey Mind)
Meltdown
Hell Hounds of Krim
The ConstruKction of Light (Instrumental)
Level Five
Epitaph
Banshee Legs Bell Hassle
Easy Money
Interlude
The Letters
Sailor’s Tale
One More Red Nightmare
Starless

Encore:
Devil Dogs Of Tessellation Row
The Court of the Crimson King
21st Century Schizoid Man

Ad essere veramente pignoli la scaletta del tour 2015 è bellissima ma a tratti strana: vengono suonati quasi sempre tre brani su cinque dal primo album compresi sia Epitaph che In the court of the Crimson King, che se siamo brutalmente onesti noteremo essere molto simili tra loro e non del tutto nelle corde di questa formazione: forse perché meno rodati rispetto ad altri brani, forse perché più “lenti” e meno aperti ad invasioni di percussioni, sia su ITCOTKC che su Epitaph mi è sembrato che i Crimso non riuscissero a dare il 100%. Anche se sentire Fripp suonare In the court con la chitarra impostata sul pulito è un altro di quei momenti da incorniciare. Pure Pictures of a city è un pezzo che, essendoci già Schizoid Man, non vedo quanto senso abbia mettere in scaletta.
Altra stranezza è poi l’inclusione Easy Money, un pezzo che verte sulla possibilità di improvvisare nella parte centrale. Mi chiedevo se un gruppo così ampio e composito sarebbe stato in grado di partire per un’improvvisazione totalmente free, correndo il rischio di non riuscire più a tornare al tema originale, ma la band ha deciso di gestire in modo più semplice la sezione centrale limitandosi a degli interventi alternati tra gli strumenti e un breve cantato scat di Jakko: tutto sommato un modo originale ma anche un po’ troppo “comodo” per gestire una canzone così particolare.
Sicuramente queste osservazioni sono anche figlie del fatto che ho visto una delle prime date del tour, e questi tre pezzi sono stati inseriti solamente quest’anno: infatti già ascoltando il RoIo (coff coff) di Edimburgo e soprattutto di Parigi è evidente come, soprattutto su Epitaph e Easy Money, il gruppo sia già molto più coeso e il risultato migliore.

“A group forms in service of an aim. Its effectiveness is governed primarily by the clarity if its aim, the depth of commitment by and between the members, the degree to which the group’s action reflects a larger social/cultural usefulness or necessity, and the quality of its work. When the aim has been served, or the commitment discharged, any group worthy of the name disbands. Otherwise, it becomes an institution and its members suffer the ossification which accompanies institutionalization.”
– Robert Fripp (citazione non verificata)

20150909_181157Ormai è chiaro come il 2014 sia stato uno spartiacque: non si sa cosa Fripp sia intenzionato a fare di questa formazione ma nulla potrà essere come prima, non si potrà tornare indietro. I King Crimson per 45 anni non sono mai scesi a compromessi: si sono presentati dal vivo suonando sempre il materiale più recente che avevano in repertorio, con scarse concessioni al passato, e se parte dei fan non se n’è mai data ragione (e chi non ha sentito urlare “I talk to the wind!” a qualche concerto nel 2000 o nel 2003? E come dimenticare la ITCOTCK blues di live in Detroit nel 1971?) altrettanti si sono adattati, capendo che nel percorso del gruppo non c’era spazio per la nostalgia.
Con questa formazione è cambiato tutto: una volta ancora, come già nel 1972, nel 1981 e nel 1995, i musicisti sono stati selezionati in funzione della musica che “bramava di essere suonata”, ma questa musica non è musica nuova. Con il passare dei concerti però sono stati aggiunti interludi, brani di sole percussioni e tre pezzi interamente nuovi, il che fa pensare ad un futuro di questa formazione non solo come touring band, bensì anche come “bestia da studio”. Spero fortemente che sarà così: l’impressione che ho avuto ad Hackney è stata di una band solida e sempre più affiatata, sarebbe un peccato non utilizzarla per produrre delle idee nuove e fare, dopo 15 anni, nuovamente un passo avanti. Al netto di tutti i difetti vocali di Jakko – ottimo nel sostituire Boz, buono nel fare il Lake, mediocre nel fare il Wetton – e di tutte le asimmetrie sonore, rimane una band impressionante. Una band che – soprattutto – sa rimanere nel solco della tradizione dei King Crimson: non stupire con la pura tecnica ma ondeggiare continuamente tra la disciplina e l’indisciplina, tra il deciso e l’improvvisato, tra la monarchia assoluta e l’anarchia ancora più assoluta. E in questo i Crimso a sette teste eccellono, lasciando ampi spazi di miglioramento per il futuro.

Chi ha il compito più difficile è il pubblico, sovrastimolato da una quantità di parti musicali e movimenti e ostacolato da una totale assenza di contatto esplicito con la band. Alla fine dello show quindi si resta come frastornati, a digerire la quantità di stimoli musicali e visivi ai quali si è assistito: un risultato niente male, per un gruppo che all’anagrafe ha ormai 46 anni.

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