new life coming soon

Le cose cambiano, si evolvono, si trasformano, prendono nuove forme.

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E anche noi ci stiamo trasformando, come fa un bruchetto che diventa farfalla.
D’ora in poi questo luogo avrà il suo alter-ego reale (
buffo, di solito succede proprio il contrario…). Sarà un po’ più luminoso, un po’ più abitato, soprattutto da me, che ultimamente qui un po’ latito (ma da lunedì avrò l’ADSL!), un po’ più caldo, un po’ meno ordinato, ugualmente rumoroso…

Sarà bello avere un posto dove tornare tutti e due la sera, stanchi dopo il lavoro, magari arrabbiati, magari entusiasti, magari pensierosi o euforici e mettersi a tavola insieme. Ed essere lì, tutti e due, senza la mediazione di mezzi tecnologici.

Sarà difficile, perché non ci risparmieremo i momenti peggiori, come spesso siamo riusciti a fare in questi 6 anni. Ma sarà bello avere la possibilità di parlarci guardandoci negli occhi, di non salutarci la sera prima di tornare ognuno a casa sua.

E poi ci saranno i nostri quadri, i nostri cd, le nostre tazze… cucineremo le nostre pietanze (dolci compresi! mmmh….) e inviteremo i nostri amici. Con i nostri tempi.

Sarà bello, però, perché come qui, sarà nostro.

Ma in fondo il compito dei rami non è quello di allontanarsi dalle radici?

Quando, quasi cinque anni fa, aprimmo questo blog, ci piacque la metafora del monolocale.
Il monolocale ci dava l’idea di un posticino piccolo ma accogliente, che potevamo facilmente personalizzare e rendere nostro, ma anche aprire ad altre persone che volessero passare a trovarci. Era un gioco, una similitudine che ho avuto in mente (e credo anche Sisila) ogni volta che ho scritto un post su SoleLuna. Più che un post, un post-it sul frigo del nostro monolocale.

Ora invece è ora di traslocare, di trasferirsi sul serio. Non per il blog, ma per noi. E non in un monolocale, come ci aspettavamo sessanta lune fa, bensì in un appartamento che divideremo con un terzo inquilino.

CasaSi tratta sicuramente di un momento cruciale delle nostre vite, una scelta che influenzerà pesantemente tutte quelle successive. Ci troveremo da un giorno all’altro catapultati in un mondo di bollette e assicurazioni, sveglie presto e poca voglia di far da mangiare. Ma sarà anche un mondo di sguardi giornalieri, di abbracci, di decisioni finalmente improvvise e nuove sfide. Dovremo imparare a guardare insieme nella stessa direzione, ad ascoltarci molto di più che al telefono, perché parleremo forse di meno, e ad amarci in modo nuovo.

Le sfide ci piacciono, e per questo siamo entusiasti di partire. Era un sogno che coltivavamo da tanto tempo. Dall’altra parte però – e qui parlo ovviamente per me stesso – è un vero salto nel buio, forse il primo vero salto nel buio della nostra vita di coppia. Un salto pensato, meditato e analizzato meticolosamente, ma resta un salto. Dove arriveremo non lo sappiamo, possiamo solo affidarci e sperare che sia un posto solido dove mettere i piedi.

La tempesta nella quiete

Da un po’ di tempo a questa parte a Verona, piazza Dante il mercoledì si riempie di giovani. Ragazzi e ragazze di tutte le zone della città si ritrovano per chiacchierare, bere qualcosa (rigorosamente portato da casa, visti i prezzi dei bar del centro), suonare musica, fumare e passare una bella serata. Qualcosa che da un lato è talmente normale che sembra stupido mettersi a raccontarlo, ma che dall’altra parte ha del rivoluzionario. In un’era dominata – ed è un fatto – dalla comunicazione, in una città di decine di migliaia di abitanti ancora ci si trova, una sera alla settimana, in piazza. Non occorre sapere necessariamente prima chi ci sarà e chi no: una volta là si troverà qualcuno che si conosce, come sempre.

Pare però che ora sia diventato pericoloso trovarsi in piazza, e non dentro un locale chic o nella sicura solitudine della periferia. Ed è così che Piazza Dante, l’altroieri, è stata teatro di una scena che non avrei mai voluto vedere.

Il resto lo trovate qui.

Point of view

“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali.”

Emigranti Italiani(Dalla relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano
sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912)

…e continuava…

“Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.

da Macchianera (purtroppo non ho la fonte diretta)

Pensieri a sonagli

"Non sono un esegeta del pensiero del presidente Napolitano, per cui non so interpretare quello che realmente intendeva dire ieri, quando ha parlato di pericolo xenofobia per il nostro Paese. Se voleva lanciare uno dei suoi moniti «di principio», non possiamo che dirci d’accordo: siamo tutti contro la xenofobia, così come siamo contro la violenza negli stadi, contro lo sfruttamento delle donne, contro l’abbandono dei cani in autostrada e per la bontà degli animi universale. Evviva. Dimenticavo: siamo anche contro la fame nel mondo. E siamo per un futuro pieno di soddisfazioni per tutti. Auguri.
Siccome quella frase, però, è stata subito letta come una denuncia precisa dell’Italia come Paese xenofobo, ci sentiamo di rispondere pacatamente agli interpreti entusiasti e sgangherati del Napolitano pensiero: ma dove caspita vivete? Guardatevi attorno, provate a uscire dai lanci d’agenzia che vi imprigionano ogni giorno, provate a visitare le periferie delle grandi città, dove prendere un autobus è diventato più pericoloso che attraversare la savana. L’Italia non è un Paese xenofobo: è un Paese spaventato. Non è un Paese razzista: è un Paese che ha paura. Gli italiani chiedono regole certe. E chiedono che siano rispettate. Non è una domanda razzista. È una domanda di civiltà.
Ma sì, dai, lo sapete anche voi, al di fuori della vostra nuvoletta di arroganza e della vostra polemichetta a scopo elettorale: non c’è xenofobia, nel nostro Paese. Lo sapete. O meglio: ci sono alcuni episodi, che vanno denunciati e condannati, così come si condanna chi getta i sassi dal cavalcavia o fa a coltellate all’autogrill con la scusa di essere ultras. I cretini si nascondono sotto qualsiasi bandiera. Ma restano cretini. E il loro cretinismo non può far dimenticare che questo Paese non è razzista. Non è xenofobo. È un Paese che sa accogliere. Che sa convivere. È un Paese generoso, di gente perbene, che non discrimina qualcuno in base al colore della pelle o alla sua città d’origine. Discrimina qualcuno solo in base a come si comporta. L’unico razzismo che c’è in Italia è quello contro la razza dei delinquenti."

Vorrei chiederlo io a Mario Giordano, ex direttore di Studio Aperto (e di Lucignolo) ed ora del Giornale, in quale paese vive.
Perché nel paese in cui vivo io i genitori dicono ai figli "porta a casa anca on nero, basta che non sia on teron!", e questa è xenofobia. Dicono "sono per l’integrazione, basta che ognuno se ne stia a casa sua", che non vuol dire un cazzo. Dicono "non uscire a correre per la strada, che non si sa mai chi si può fermare". E la paura non è del compaesano, è paura del diverso. E’  xenofobia.
E la xenofobia non è razzismo, è l’anticamera del razzismo. E’ la paura della diversità, la paura che porta al rifgetto e al rifiuto. Se è rifiuto dell’emancipazione femminile si trasforma in violenza, se è rifiuto dell’emancipazione dei figli si manifesta in altra violenza. Se è rifiuto del compromesso a cui occorre scendere per condividere la propria terra con chi è diverso si manifesta in razzismo.

L’articolo di Giordano, dotato di pluralia maestatis come tutti i veri editoriali di destra (da Feltri a Gervaso), è quasi offensivo nel suo qualunquismo. Si potrebbe riassumere in "Napolitano ha parlato di pericolo xenofobia? Non parlava certo di noi, non preoccupatevi. E a dire il vero secondo me sbagliava, perché non c’è xenofobia. C’è paura del diverso". Come se cambiasse qualcosa.

Se in Italia l’unico razzismo presente fosse quello contro la razza dei delinquenti Napolitano non avrebbe avuto alcun bisogno di dire quelle parole, e credo che un editoriale come questo possa essere irrispettoso ancor di più delle parole velenose di Di Pietro di qualche mese fa o delle bandiere bruciate in piazza. Ma anche di questo non si parlerà.

P.S. Poi il Giornale cosa sia il razzismo sembra non saperlo proprio…

Sogni

da Generacion Y

"Me ne vado con il nipote più piccolo a passeggiare per le strade di un’Avana diversa e al tempo stesso familiare. Non gestisco più un blog e i miei settant’anni si vedono in ogni ruga del volto e nella lunga treccia bianca. Tutto questo potrebbe essere soltanto una fantasia futurista dai toni oscuri, ma preferisco credere che camminiamo in una città rinata e prospera. Ce ne andiamo in un parco a prendere il sole e cerco – come ogni anziano – di parlarle dei miei tempi, di quegli anni nei quali avevo la magrezza e l’energia che lui mostra adesso. 

Lo spagnolo è ancora la lingua madre dei miei figli, ma il ragazzo mi guarda come se non comprendesse ciò che dico. Si mostra perplesso quando parlo di “periodo speciale”, “tessera di razionamento” e “fedeltà ideologica”. I suoi problemi sono così differenti che non può capire le cose del mio passato. Mostra senza pudore di non conoscere bene la storia e chiama un leader scomparso con il nome di un cantante di salsa. Non riesce a comprendere la differenza tra il carattere socialista della Rivoluzione e la fine dell’Unione Sovietica.

Non mi zittisce per rispetto, ma nei suoi occhi leggo che tutte le mie chiacchiere lo annoiano. “La nonna è rimasta indietro nel tempo” dirà quando me ne sarò andata, ma davanti a me finge di ascoltare gli sfasati aneddoti di una Cuba remota. Questo ragazzo non sa che soltanto il presagio della sua venuta al mondo, quarant’anni prima, mi ha permesso di mantenere il buon senso. Immaginarlo, seduto in un parco dell’Avana futura, con la sua smorfia di incredulità, mi ha impedito di prendere il cammino del mare, della simulazione o del silenzio. Sono arrivata sin qui grazie a lui e invece di dirglielo, lo infastidisco con i miei aneddoti su ciò che è accaduto, su ciò che mai tornerà a ripetersi."