Ei fu

Per anni abbiamo pensato che questo giorno sarebbe stato, nel suo piccolo, un punto di svolta della storia del paese. Sbalorditi e travolti dalla capacità di Berlusconi di sopravvivere a ogni sconfitta, non poteva esserci altro modo per abbassare il sipario: davanti alla sua immortalità politica, non rimaneva che attendere la sua morte fisica. Per vent’anni, un pezzo consistente dell’Italia ha aspettato la morte di Berlusconi con la pazienza con cui si attende la fine di un interminabile digiuno: l’ineluttabile alba al termine di una lunga, lunghissima nottata. Poi le cose sono cambiate. A un certo punto, dieci anni fa, abbiamo capito che la morte di Berlusconi non avrebbe cambiato granché, in uno scenario politico che aveva finalmente imparato a fare a meno della sua figura. Ci rimane un addio in qualche modo atteso, come tutti quelli dei personaggi celebri che raggiungono una certa età, e la sensazione che dovrà passare ancora del tempo prima di avere una percezione completa e oggettiva di come e quanto in profondità Silvio Berlusconi ha cambiato questo paese.

In questi giorni, alcuni commentatori hanno parlato della «seconda morte di Berlusconi», sostenendo che la prima e probabilmente più dolorosa morte del cavaliere di Arcore sia avvenuta dieci anni fa, in quel 14 giugno del 2010 che ha cambiato la rotta della politica italiana. La prospettiva della storia mostra ravvicinati e schiacciati, come in una foto, avvenimenti che tennero in sospeso le sorti del paese per otto lunghi mesi: la sconfitta di Belrusconi alle elezioni regionali e la definitiva rottura con Gianfranco Fini, la dissoluzione del Partito Democratico dopo la vittoria di Pierluigi Bersani, gli scandali sessuali sui massimi dirigenti dell’Udc che distrussero il partito di Casini, la nascita della cosiddetta «coalizione tricolore» composta dai finiani del Pdl, l’Italia dei Valori e l’ala destra fuoriuscita dal Pd. Si definirono un “comitato di liberazione nazionale” e in effetti da qualcosa liberarono l’Italia: dalla sinistra. Da una parte rimase la Lega Nord, reduce dal più grande risultato della sua storia all’indomani della morte di Umberto Bossi; dall’altra la coalizione tricolore, un centrodestra securitario e liberale – “europeo”, dicevano – con un leader intenzionato a guidare la transizione verso il dopo Berlusconi. A sinistra solo macerie. Il segretario del Pd Pierluigi Bersani aveva puntato tutto sull’alleanza strategica con l’Udc, un progetto che fu disintegrato dagli scandali distrussero il già esiguo consenso del partito di Casini. Quando quel che rimaneva del centro politico decise di andare con Fini, una bella fetta del Pd li seguì nell’arco di pochi giorni. Quei pochi che rimasero litigarono per settimane sull’opportunità di unirsi alla coalizione tricolore, come in un nuovo Cln, o presidiare la sinistra. Il verdetto delle politiche fu impietoso. La Lega Nord ottenne uno straordinario ma inutile 24 per cento, il Partito Democratico si fermò esanime al 19 per cento. La coalizione tricolore ottenne un incredibile 52 per cento, mostrando come la figura polarizzante di Berlusconi, specie negli ultimi anni della sua avventura politica, avesse finito per ridurre e non per aumentare le potenzialità della destra italiana.

Ora che Silvio Berlusconi è morto, possiamo affermare con qualche certezza che la sua eredità più profonda e duratura non sia stata tanto l’aver trasformato la destra italiana, quanto aver cambiato la sinistra. Anno dopo anno, governo dopo governo, una buona metà dell’elettorato italiano è diventata sempre meno interessata alle vicende del paese e dei suoi concittadini, e sempre più appassionata alle vicende personali dell’allora premier. Sempre più arrabbiata e desiderosa di vendetta, sempre meno tollerante e partecipante alla vita politica del paese. Sempre più egoista e individualista, sempre meno altruista e lungimirante. Talmente arroccata nella difesa di alcune bandiere apolitiche – la questione morale, la laicità dello stato, il conflitto di interessi – da dimenticarsi completamente di quello che una volta determinava la differenza tra destra e sinistra: il rispetto delle minoranze e degli altri, l’erogazione dei servizi pubblici e la loro qualità, le politiche del fisco, del lavoro e dei redditi, le infrastrutture, l’istruzione. Pensavano che tolto finalmente di mezzo Berlusconi, il governo sarebbe scivolato placidamente tra le loro mani. Solo che l’uovo cadde dall’altra parte, e a raccoglierlo c’era una destra deberlusconizzata, capace di convincere la grande maggioranza degli italiani a votare per lei e aprire un nuovo solido ciclo di governo.

Alcuni sostengono che tutto sia cominciato con l’esplosione del populismo di sinistra, nel 2007. Altri fanno coincidere il primo segnale di questo smottamento con gli applausi fragorosi che la platea del Pd destinò a Gianfranco Fini nel 2009, mentre il presidente – oggi dello Stato italiano, allora della Camera dei deputati – arringava degli elettori che nessuno pensava avrebbero mai potuto votare per lui. A pensarci adesso, invece, non poteva esserci segnale più evidente. Gli elettori del Pd pensavano di aver cambiato Fini e averlo portato dalla loro parte; era successo esattamente il contrario. Dietro la più grande trasformazione dell’elettorato italiano c’era sempre lui, Silvio Berlusconi. La sua era si è conclusa definitivamente, ben prima della sua morte. La sua eredità segnerà ancora a lungo la storia di questo paese.

Il coccodrillo del secolo. Firmato da quel geniaccio di Francesco Costa.

Fra dieci anni lo rileggeremo, e ne rideremo… O no?

Show

La seconda guerra mondiale fu sotto gli occhi di tutti, per forza di cose. Proprio per questo forse gli stati coinvolti capirono che non era più il caso di mettere in pericolo la propria popolazione – e di conseguenza il consenso elettorale – con guerre alla luce del sole. Meglio concentrarsi su conflitti laterali, in sordina.

La guerra del Vietnam fu sicuramente un fallimento, da questo punto di vista. Benché combattuta lontano dal suolo americano fu una guerra documentata, raccontata, spiegata in ogni dettaglio ai familiari, agli americani, agli elettori. Ecco perché invece in Afghanistan, e in Iraq, i giornalisti sono meno, sono embedded e quindi i racconti e le immagini che passano attraverso i vari passaggi ed arrivano al pubblico sono poche.

Talmente poche che una foto come questa, l’immagine di un marine morente come ne esistono tante della WWII, può arrivare a destare polemiche. Joshua Bernard, un ragazzo di ventun anni, nato quindi nel 1988, viene inviato a migliaia di kilometri da casa a combattere una guerra contro una fazione politica colpevole (secondo il ragazzo in questione) di fomentare il terrorismo internazionale. Questo ragazzo, durante un’azione di combattimento, viene colpito e muore. Quell’istante viene fermato da un fotografo e pubblicato, dopo le esequie del ragazzo. Non sarebbe forse scandaloso il contrario?

C’è chi dice che questa foto non avrebbe mai dovuto essere mostrata, per rispetto al caduto o ai familiari.
Io dico che questo è stato, non è un film o una pièce teatrale. I commilitoni di quel ragazzo non potevano esimersi dal vedere, e non è giusto che noi non vediamo. Mi stupisce anzi che nel 2009 se ne stia ancora a discutere. Questa guerra – queste guerre sono nascoste ai nostri occhi anche da un velo di falso rispetto, che spesso cela l’ipocrisia di chi non vuole affrontare le conseguenze delle proprie scelte o non scelte. Comunque la si pensi dei giovani stanno morendo, e quando un ragazzo muore col terrore negli occhi non vedo giustizia.