Ai figli di domani

Le parole di un ragazzo persiano:

Ho deciso che parteciperò alle manifestazioni di domani. Forse diverranno violente. Forse sarò una delle persone che saranno uccise. Sto ascoltando la mia musica preferita. Voglio addirittura ballarla, qualche canzone. [In Iran musica e balli sono vietati, Nota mia] Ci sono anche alcune grandi scene di film che voglio rivedere. Devo anche tirar giù la libreria. Val la pena leggere le poesie di Forough e Shamloo una volta di più. Tutte le foto della mia famiglia devono essere viste una volta ancora, anche loro. Devo anche chiamare i miei amici per dir loro ciao. Tutto quello che ho sono due scaffali di libri, ho detto alla mia famiglia a chi darli. Mi mancano due esami [capitoli] per laurearmi, ma che importa di questo. La mia mente è in subbuglio e confusione. Ho scritto queste frasi casuali per la prossima generazione perché sappiano che non eravamo solamente in preda all’emotività o spinti dai nostri coetanei. Perché essi sappiamo che abbiamo fatto tutto il possibile per creare un futuro migliore per loro. Perché sappiano che i nostri antenati si sono arresi agli arabi e ai mongoli, ma non si sono arresi al dispotismo. Questo appunto è dedicato ai figli di domani…

Il resto qui

Per chi non se ne fosse accorto

In Iran in questi giorni stanno succedendo un bel po’ di cose interessanti. Una rivoluzione? Riccardo (il nostro coinquilino che studia persiano e che a settembre – se tutto va bene – se ne andrà in Iran) dice di no. Semplicemente una rivolta dopo delle elezioni smaccatamente truccate. Una rivolta che probabilmente finirà soffocata, in un modo o nell’altro, ma che comunque da a tutti un esempio illuminante di civiltà e di desiderio di libertà.

Per chi – come me – non fosse così à la page riguardo alla situazione iraniana, pubblico un efficace bignami del solito Francesco Costa:


Prima del voto
In Iran si vota ogni quattro anni per eleggere il presidente e i membri del parlamento. Nonostante questo, definire l’Iran una democrazia è una barzelletta: l’Iran è una teocrazia fondamentalista che vede al potere un sovrano assoluto – la guida suprema, l’ayatollah – e relega alle istituzioni elette poteri del tutto ininfluenti. In realtà è un eufemismo anche il verbo ‘eleggere’: solo i candidati approvati dagli ayatollah possono essere ammessi al voto, un voto al quale gli osservatori internazionali indipendenti non hanno mai assistito. Per non parlare dei mezzi di comunicazione, completamente sdraiati sulle posizioni del regime, di internet, continuamente oscurato, della libertà di espressione del proprio pensiero, inesistente, delle continue violazioni dei diritti umani, delle angherie commesse dalla polizia morale su donne e omosessuali, delle innumerevoli condanne a morte ai danni anche di minorenni, e l’elenco potrebbe continuare. Ben lungi dall’essere una democrazia, l’Iran è una delle dittature più efferate e violente che questo mondo abbia conosciuto. Ogni quattro anni il regime mette in piede il teatrino delle elezioni, e dopo aver accettato solo candidature gradite, aver blindato i mezzi di comunicazione e la campagna elettorale, chiede ai propri cittadini di andare a votare, in un clima di intimidazioni e violenze. Il risultato, che piaccia o no ai cittadini, è già stato deciso dagli ayatollah. A questo giro si sfidavano il presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad, espressione sopraffina della violenza retrograda del regime, e Mir-Hossein Mousavi, nel ruolo del candidato “moderato”. Mousavi non è uno per cui una persona libera e democratica potrebbe fare il tifo: i suoi proclami sono sostanzialmente quelli degli ayatollah, sebbene siano esposti senza la violenza verbale del suo avversario. Un volto presentabile, insomma, con qualche differenza un po’ più concreta, soprattutto a livello di immagine e linguaggio. Un esempio su tutti: di Ahmadinejad si ricorda una solo foto in compagnia della moglie, ed è una foto terribile. Mousavi e la moglie hanno fatto campagna elettorale insieme – direi all’americana, se non fosse un po’ una bestemmia – e non sono mancati i proclami di buone intenzioni. Che non sono tutto, ma non sono nemmeno niente: sono una differenza. Fino a sette, dieci giorni prima del voto, gli osservatori e i commentatori erano unanimi del dare Ahmadinejad in leggero vantaggio, nonostante la sua crescente impopolarità. A un certo punto però è successo qualcosa. Ne avrete letto in giro, se n’è parlato come della green wave iraniana, l’onda verde. Attorno a Mousavi si è formato un clima di fermento e attesa: comizi frequentatissimi, slogan provocatori verso il regime, centinaia di ragazzi in strada, atmosfera elettrica da grandi cambiamenti. Un entusiasmo tale da non poter essere giustificato dal profilo del candidato, bensì semmai da un rigetto nei confronti del regime, alle prese peraltro con gli effetti della crisi economica. Qui si dovrebbe fare un lungo racconto della società iraniana, di come è diversa da quella degli altri paesi arabi, di come solo trent’anni fa quel paese fosse un altro paese. Si era come risvegliato qualcosa.

Il voto
Come dicevamo, il voto in Iran è una farsa e questa ne è stata la prova ultima e definitiva. I risultati delle elezioni approvati dagli ayatollah poche ore dopo la chiusura dei seggi, la distribuzione bizzarra dei consensi (la stessa percentuale dappertutto, persino nel villaggio di nascita di Mousavi), il blocco dei sistemi di conteggio indipendenti dei candidati, i messaggi contraddittori provenienti dai luoghi degli scrutini: le incongruenze sono innumerevoli. La notizia non è tanto questa – sebbene stupisca la fretta, l’approssimazione e la superficialità con cui i trogloditi al potere abbiano orchestrato questo teatrino – bensì quello che è accaduto dopo. Un casino.

Dopo il voto
Un casino inenarrabile e inimmaginabile, per un paese del quale conoscevamo la presenza di un generale malcontento ma non una tale instabilità sociale. Le strade si sono riempite di manifestazioni di protesta nei confronti di un regime che ha subito mostrato tutto il repertorio di ogni dittatura degna di questo nome: repressioni violente, scontri, spari, blocco delle linee telefoniche e del traffico cellulare, ostacoli per i collegamenti internet, cacciata dei giornalisti stranieri, eccetera. Mousavi è stato messo agli arresti domiciliari, insieme a un centinaio di suoi sostenitori. Si racconta di morti e diversi feriti, ma nessuno ha delle cifre precise. Mi sembra si tratti più di una ribellione nei confronti del regime, degli ayatollah, dell’autorità statale, piuttosto che di un rifiuto del fondamentalismo islamico e della legge religiosa come legge dello stato. Mi sembra si tratti di una confusa richiesta di libertà, e non di una rivoluzione organizzata attorno a un’idea, a un progetto, a una volontà di sovvertire l’Iran come lo conosciamo. È una cosa che avrà altre fiammate, da qui ai prossimi giorni, ma che è comunque destinata a essere repressa e spegnersi, a meno di sorprese.

L’occasione
Una cosa simile è già successa, in passato, anche se non in Iran. Successe in Cina, esattamente vent’anni fa, e oggi come allora la scintilla non fu una manifestazione per la libertà di parola, la richiesta di libere elezioni o l’oscuramento dei mezzi di comunicazione. Vent’anni fa in Cina le proteste nacquero addirittura dalle manifestazioni di cordoglio per la morte del leader del partito comunista cinese, e la scintilla fu la pressante richiesta di riforme economiche. Cosa successe? Successe che le proteste durarono un po’, un bel po’, e poi, violenza dopo violenza, cessarono. Il regime attuò alcune riforme in senso capitalista e imparò a gestire diversamente le mobilitazioni popolari, garantendosi la sopravvivenza per molto tempo ancora. La scintilla di libertà dei ragazzi cinesi era stata soffocata. A me sembra che in Iran stia accadendo qualcosa di molto simile. Non stiamo assistendo a una rivoluzione che può sovvertire il regime degli ayatollah. Stiamo assistendo a un grido di aiuto, a una confusa richiesta di libertà, da parte di chi oggi forse non immagina bene nemmeno cosa voglia dire, essere liberi. Quindi ricorre agli unici modelli che ha, all’unico codice che conosce. La religione. I ragazzi per le strade di Teheran urlano Allahu Akbar, ma si fanno arringare da una donna. Il verde islam è il loro colore, ma chiedono di essere liberi di scegliere da chi farsi governare. Queste manifestazioni sono un’occasione, una scintilla di libertà che è difficile non riconoscere. Non è detto però che i loro effetti saranno obbligatoriamente positivi. Possono finire nel nulla tra dieci giorni, possono convincere il regime a darsi un volto più presentabile e garantirsi la sopravvivenza. Oppure possono sovvertire gli ayatollah, e non cambiare niente comunque. I genitori di questi ragazzi ricordano bene quanto accadde nel 1979, quando dopo la cacciata dello scià il vuoto di potere, regole e autorità venne colmato dall’unico sistema di potere, regole e autorità che era rimasto in piedi, cioè l’islam. E qui entriamo in gioco noi.

 

Se non ora, quando?
Sì, noi. La comunità internazionale non può rimanere a guardare. Una delle più efferate dittature di questo mondo è nel suo momento di massima difficoltà, ma questo non basterà a farla cadere se non le diamo una spintarella. Lo so, è dura, le controindicazioni possono essere decine, ma a me sembra che difficilmente ricapiterà un’occasione così: ora o mai più. Come? Ci sono tante cose che si possono fare, nella scala che va dalle dichiarazioni di solidarietà verso i manifestanti, fino all’intervento di una forza multilaterale sotto la guida dell’Onu (d’altra parte, se è vero che “la democrazia bisogna volerla e meritarsela”, direi che gli iraniani ci stanno dando ben più di un indizio sui loro desideri). Ci sono pressioni che si possono esercitare, alleanze che si possono stringere, minacce che si possono fare. Ma facciamo qualcosa, non voltiamoci dall’altra parte. Non facciamo sì che ci passi invano davanti agli occhi una nuova Tiananmen.

Per saperne di più

Per saperne molto di più (in inglese)

Io ci sarò

Tutto il personale della Facoltà di Scienze MM.FF.NN. (e non): docenti, studenti/esse, dottorande/i, personale tecnico-amministrativo, lavoratori in università, matricole e laureande/i ricercatrici/ori

SONO INVITATI

ad intervenire all’assemblea indetta per Lunedì 20 ottobre p.v. alle ore 10:00 presso l’Aula Magna "G. Tessari" (piano terra di Cà Vignal 2 della Facoltà di Scienze MM.FF.NN.),

per informarsi, confrontarsi e discutere sulla L. 133/2008 e precisamente sui seguenti
punti:

* trasformazione in fondazione delle università
* precarietà dei lavoratori dell’università
* tagli alla ricerca e mancanza di opportunità per i dottorati
* tasse universitarie
* diminuzione del numero e della qualità dei corsi

Pensiamo che il sistema dell’istruzione debba essere trasparente e libero da logiche di tipo economico che portano all’inaridimento delle coscienze, alla discriminazione delle conoscenze non asservibili alle  esigenze del mercato, all’appiattimento verso il pensiero unico, all’appiattimento culturale dilagante.

Proponiamo un momento di discussione, dibattito e confronto.

Protesta della facoltà di scienze di Verona

Cari tutti,
Questa mail per informarvi che oggi la Facoltà di Scienze Matematiche  Fisiche e Naturali, all’unanimità del numerosissimi presenti, ha deciso di sospendere le  attività didattiche per tutto il mese di ottobre, a meno di eventuali modificazioni  legislative che potranno intercorrere e riguardanti la legge 133/2008 (conversione del DL  112/2008).

Come potete immaginare, la motivazione della protesta, che si unisce  ad analoghe manifestazioni in altri atenei italiani, è legata ai tagli  ingiustificati che questa legge opera sul sistema universitario italiano. In particolare si è rilevato come insopportabile l’essere  destinatari di tagli indiscriminati, del tutto indipendenti da una seria ed approfondita valutazione della  qualità della nostra ricerca e della nostra didattica, ovvero dei nostri prodotti. Come professori  e ricercatori siamo abituati ad essere valutati e solo conseguentemente ad una seria valutazione  siamo disposti ad accettare di essere eventualmente premiati o penalizzati.  Siamo quindi disposti ad una attenta analisi su ciò che funziona e ciò che non funziona nella  università italiana, ma non siamo disposti ad essere penalizzati indipendentemente dalla qualità del nostro  operato!

Manifesteremo il nostro disaccordo sospendendo già da domani le  attività didattiche.

In pratica:

I colleghi docenti impegnati nella didattica del I periodo sono  invitati ad informare gli studenti in aula su come funzionano i sistemi universitari in Italia e nel mondo, e sul perchè  di questa protesta. Questo dovrebbe avvenire nella prima lezione utile, dopodiché le lezioni sono sospese. Le lezioni sospese saranno recuperate in modo da non arrecare alcun danno agli studenti. Durante il periodo  di sospensione didattica i docenti saranno disponibili come di consueto per incontrare gli studenti, per  le attività di tutorato e per accoglierli in Facoltà secondo i loro  bisogni.
I destinatari della protesta non sono gli studenti!

La Presidenza ed il coordinamento didattico provvederanno ad  individuare nel migliore dei modi le soluzioni per il recupero delle lezioni perse.

Un caro saluto
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Prof. Roberto Giacobazzi
Preside della Facolta’ di Scienze MM.FF.NN.
Universita’ degli Studi di Verona
Strada Le Grazie 15, 37134 VERONA – Italy
Ph: +39 045 8027926, Fax: +39 045 8027928
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…non sono mai stato così orgoglioso di essere iscritto all’università di Verona! Anzi, alla facoltà di Scienze, visto che nel resto della città pare che non importi a nessuno…