Doors

Due anni fa scrivevo su un blog ed avevo un’agenda. L’agenda era piena di parole e di colori, ogni giorno scrivevo qualcosa. Con il blog ero invece meno assiduo, ma comunque almeno una volta alla settimana uno sfogo, un link, un’immagine o una citazione finiva sulle pagine di SoleLuna.

Poi venne Facebook, vennero i Feed e la condivisione dei contenuti. Molti post persero di senso e migrarono ai social network, prima il blog e poi l’agenda si svuotarono e un po’ si spensero. Vennero le lauree, quella di Sisila prima e la mia poi, si sovrapposero gli impegni e il blog finì sempre più in disparte, quasi a diventare una lavagna su cui dover ogni tanto scrivere qualcosa.

Quando quel blog iniziò la sua storia, nel 2004, voleva essere un appartamento virtuale, un monolocale nel quale Sisila ed io avremmo potuto sentirci un po’ a casa insieme. Ora questa casa insieme si è concretizzata in un appartamento – per fortuna non un monolocale – nel comune più bello d’Italia, ed abbiamo deciso di far traslocare anche il blog.

Internouno sarà qualcosa di diverso da Sole-Luna, inevitabilmente. Il web è cambiato e noi pure, forse ci saranno meno link e più storie; forse ci saranno più post o forse meno. Sicuramente avranno un’impronta nuova.

Perché in fondo sappiamo entrambi che nessun articolo condiviso, nessun “mi piace” e nessun tweet può sostituirsi all’atto, terapeutico e intimo, dello schiacciare il tasto pubblica

Yoany Sanchez sequestrata e malmenata a Cuba

Nei pressi di calle 23, proprio alla rotonda dell’avenida de los Presidente, abbiamo visto arrivare a bordo di un’auto nera – di fabbricazione cinese – tre robusti sconosciuti: “Yoani, sali in auto” mi ha detto il primo afferrandomi con forza per un polso. Gli altri due trattenevano Claudia Cadelo, Orlando Luís Pardo Lazo e un’amica che ci accompagnava a una marcia contro la violenza. Ironia della vita, quella che doveva essere una giornata di pace e concordia si è trasformata in una serata carica di botte, grida e male parole. Gli stessi “aggressori” hanno chiamato una pattuglia che si è portata via gli altri miei due compagni, Orlando e io eravamo condannati all’auto con targa gialla, lo spaventoso terreno dell’illegalità e dell’impunità per l’Armageddon (1). Mi sono rifiutata di salire sul brillante Jelly e abbiamo preteso che si identificassero e mostrassero un mandato giudiziario che li autorizzasse a portarci via. Non ci hanno fatto vedere nessuna carta che provasse la legittimità del nostro arresto. I curiosi si accalcavano intorno e io gridavo: “Aiuto, questi uomini ci vogliono sequestrare”, ma loro hanno fermato chi voleva intervenire con un grido che rivelava tutto il fondamento ideologico dell’operazione: “Non vi intromettete, questi sono dei controrivoluzionari”. Di fronte alla nostra resistenza verbale, hanno preso il telefono e hanno detto a qualcuno che doveva essere il loro capo: “Cosa facciamo? Non vogliono salire sull’auto”. Immagino che all’altro lato la risposta sia stata categorica, perché dopo ci hanno riempito di botte e spintoni, mi hanno caricato con la testa verso il basso e hanno tentato di infilarmi nell’auto. Ho afferrato la porta, ricevendo colpi sulle mani, sono riuscita a togliere un foglio che uno di loro portava in tasca e me lo sono messo in bocca. Mi sono presa un’altra scarica di botte perché restituissi il documento. Orlando era già dentro l’auto, immobilizzato da una mossa di karate che lo faceva stare con la testa verso il pavimento. Uno ha messo le sue ginocchia sul mio petto e l’altro, dal sedile anteriore mi colpiva nella zona dei reni e sulla testa per farmi aprire la bocca e liberare il documento. Per un istante, ho temuto che non sarei più uscita da quell’auto. “Sei arrivata fino a qui, Yoani”, “Adesso la finirai di fare pagliacciate”, ha detto quello che era seduto accanto all’autista e che mi tirava i capelli. Nel sedile posteriore si poteva assistere a uno spettacolo molto strano: le mie gambe verso l’alto, il mio volto arrossato per la pressione e il corpo indolenzito, all’altro lato c’era Orlando conciato male da un picchiatore professionista. In un gesto di disperazione sono riuscita ad afferrare, dai pantaloni, i testicoli di questo personaggio. Ho affondato le mie unghie, supponendo che lui avrebbe continuato a schiacciare il mio petto fino all’ultimo respiro. “Uccidimi adesso”, gli ho gridato, con il fiato che mi restava, ma quello che stava nei sedili anteriori ha detto al più giovane: “Lasciala respirare”. Sentivo Orlando ansimare e le botte continuavano a cadere su di noi, ho pensato per un attimo di aprire la porta e gettarmi fuori, ma all’interno non c’era una maniglia utilizzabile. Eravamo nelle loro mani ma ascoltare la voce di Orlando mi rincuorava. In seguito lui mi ha detto che gli accadeva lo stesso ascoltando le mie parole rotte dai singhiozzi… perché gli dicevano “Yoani è ancora viva”. Ci hanno lasciati in pessime condizioni, scaraventandoci in una strada della Timba, una donna si è avvicinata: “Che cosa vi è successo?”… “Un sequestro”, ho risposto. Ci siamo messi a piangere abbracciati in mezzo al marciapiede, pensavo a Teo, non sapevo come avrei potuto spiegargli quel che avevo passato. Come potrò dirgli che vive in un paese dove succedono queste cose, come potrò guardarlo e raccontargli che sua madre è stata malmenata in mezzo alla strada perché scrive un blog dove esprime le sue opinioni in kilobytes. Come potrò descrivergli il volto autoritario di chi ci ha fatto salire con la forza su quella macchina, il piacere che si leggeva sui loro volti mentre ci percuotevano, alzavano la mia gonna e mi trascinavano seminuda verso l’auto. Sono riuscita a vedere, nonostante tutto, il livello di agitazione dei nostri aggressori, la paura del nuovo, delle cose che non possono distruggere perché non le comprendono, il terrore del gradasso che sa di avere i giorni contati.

Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

Ei fu

Per anni abbiamo pensato che questo giorno sarebbe stato, nel suo piccolo, un punto di svolta della storia del paese. Sbalorditi e travolti dalla capacità di Berlusconi di sopravvivere a ogni sconfitta, non poteva esserci altro modo per abbassare il sipario: davanti alla sua immortalità politica, non rimaneva che attendere la sua morte fisica. Per vent’anni, un pezzo consistente dell’Italia ha aspettato la morte di Berlusconi con la pazienza con cui si attende la fine di un interminabile digiuno: l’ineluttabile alba al termine di una lunga, lunghissima nottata. Poi le cose sono cambiate. A un certo punto, dieci anni fa, abbiamo capito che la morte di Berlusconi non avrebbe cambiato granché, in uno scenario politico che aveva finalmente imparato a fare a meno della sua figura. Ci rimane un addio in qualche modo atteso, come tutti quelli dei personaggi celebri che raggiungono una certa età, e la sensazione che dovrà passare ancora del tempo prima di avere una percezione completa e oggettiva di come e quanto in profondità Silvio Berlusconi ha cambiato questo paese.

In questi giorni, alcuni commentatori hanno parlato della «seconda morte di Berlusconi», sostenendo che la prima e probabilmente più dolorosa morte del cavaliere di Arcore sia avvenuta dieci anni fa, in quel 14 giugno del 2010 che ha cambiato la rotta della politica italiana. La prospettiva della storia mostra ravvicinati e schiacciati, come in una foto, avvenimenti che tennero in sospeso le sorti del paese per otto lunghi mesi: la sconfitta di Belrusconi alle elezioni regionali e la definitiva rottura con Gianfranco Fini, la dissoluzione del Partito Democratico dopo la vittoria di Pierluigi Bersani, gli scandali sessuali sui massimi dirigenti dell’Udc che distrussero il partito di Casini, la nascita della cosiddetta «coalizione tricolore» composta dai finiani del Pdl, l’Italia dei Valori e l’ala destra fuoriuscita dal Pd. Si definirono un “comitato di liberazione nazionale” e in effetti da qualcosa liberarono l’Italia: dalla sinistra. Da una parte rimase la Lega Nord, reduce dal più grande risultato della sua storia all’indomani della morte di Umberto Bossi; dall’altra la coalizione tricolore, un centrodestra securitario e liberale – “europeo”, dicevano – con un leader intenzionato a guidare la transizione verso il dopo Berlusconi. A sinistra solo macerie. Il segretario del Pd Pierluigi Bersani aveva puntato tutto sull’alleanza strategica con l’Udc, un progetto che fu disintegrato dagli scandali distrussero il già esiguo consenso del partito di Casini. Quando quel che rimaneva del centro politico decise di andare con Fini, una bella fetta del Pd li seguì nell’arco di pochi giorni. Quei pochi che rimasero litigarono per settimane sull’opportunità di unirsi alla coalizione tricolore, come in un nuovo Cln, o presidiare la sinistra. Il verdetto delle politiche fu impietoso. La Lega Nord ottenne uno straordinario ma inutile 24 per cento, il Partito Democratico si fermò esanime al 19 per cento. La coalizione tricolore ottenne un incredibile 52 per cento, mostrando come la figura polarizzante di Berlusconi, specie negli ultimi anni della sua avventura politica, avesse finito per ridurre e non per aumentare le potenzialità della destra italiana.

Ora che Silvio Berlusconi è morto, possiamo affermare con qualche certezza che la sua eredità più profonda e duratura non sia stata tanto l’aver trasformato la destra italiana, quanto aver cambiato la sinistra. Anno dopo anno, governo dopo governo, una buona metà dell’elettorato italiano è diventata sempre meno interessata alle vicende del paese e dei suoi concittadini, e sempre più appassionata alle vicende personali dell’allora premier. Sempre più arrabbiata e desiderosa di vendetta, sempre meno tollerante e partecipante alla vita politica del paese. Sempre più egoista e individualista, sempre meno altruista e lungimirante. Talmente arroccata nella difesa di alcune bandiere apolitiche – la questione morale, la laicità dello stato, il conflitto di interessi – da dimenticarsi completamente di quello che una volta determinava la differenza tra destra e sinistra: il rispetto delle minoranze e degli altri, l’erogazione dei servizi pubblici e la loro qualità, le politiche del fisco, del lavoro e dei redditi, le infrastrutture, l’istruzione. Pensavano che tolto finalmente di mezzo Berlusconi, il governo sarebbe scivolato placidamente tra le loro mani. Solo che l’uovo cadde dall’altra parte, e a raccoglierlo c’era una destra deberlusconizzata, capace di convincere la grande maggioranza degli italiani a votare per lei e aprire un nuovo solido ciclo di governo.

Alcuni sostengono che tutto sia cominciato con l’esplosione del populismo di sinistra, nel 2007. Altri fanno coincidere il primo segnale di questo smottamento con gli applausi fragorosi che la platea del Pd destinò a Gianfranco Fini nel 2009, mentre il presidente – oggi dello Stato italiano, allora della Camera dei deputati – arringava degli elettori che nessuno pensava avrebbero mai potuto votare per lui. A pensarci adesso, invece, non poteva esserci segnale più evidente. Gli elettori del Pd pensavano di aver cambiato Fini e averlo portato dalla loro parte; era successo esattamente il contrario. Dietro la più grande trasformazione dell’elettorato italiano c’era sempre lui, Silvio Berlusconi. La sua era si è conclusa definitivamente, ben prima della sua morte. La sua eredità segnerà ancora a lungo la storia di questo paese.

Il coccodrillo del secolo. Firmato da quel geniaccio di Francesco Costa.

Fra dieci anni lo rileggeremo, e ne rideremo… O no?

Altri mondi?

Andrea Scanzi per La Stampa:

Ci sono storie che gelano il sangue. Di solito, sono storie che non si raccontano mai fino in fondo. Per non ferire o per non disturbare il manovratore. Chi scrive ha il nervo (particolarmente) scoperto per le violenze di Stato. Per il sopruso della Legge. Per il manganello facile.
Chi scrive prova imbarazzo e disgusto, se pensa alla mattanza della scuola Diaz, alle torture di Bolzaneto (tutte impunite) e alla verità ufficiali che hanno reso più "accettabile" la morte di Carlo Giuliani.  Chi scrive prova terrore se pensa a quanto accaduto a Ferrara nella notte del 25 settembre 2005.

Le storie terribili vanno raccontate con leggerezza e precisione. In questo senso, le graphic novel aiutano. Ne escono di meravigliose, qualche giorno fa ho terminato Pyongyang di Guy Delisle: stupendo. E’ dunque oltremodo consigliabile Zona del silenzio, di Checchino Antonini e Alessio Spataro. La prefazione, impeccabile, è di Girolamo Di Michele. Il libro, che riecheggia per disegni il grande Maus di Art Spiegelman, è uscito un mese fa per Minimum Fax. Racconta l’omicidio di Federico Aldrovandi. E’ tutto vero, al di là dei nomi (ironicamente) mutati di alcuni giornalisti, politici e quotidiani. E’ un libro che racconta come per alcuni il "diverso" non sia che una zecca. Qualcosa da umiliare e ridicolizzare, nel nome della legge.
 "Zona del silenzio" era il cartello in Via dell’Ippodromo a Ferrara, davanti al quale il ragazzo è morto. Non si saprà mai quando tutto è cominciato. Probabilmente una signora di Ferrara ha chiamato il 113 perché disturbata dalle urla di un ragazzo nella notte. Quel ragazzo è Federico Aldrovandi, 18 anni. 

Sono, più o meno, le 5 del mattino. Federico ha passato la serata con gli amici e ha chiesto di essere sceso lì. Ha bevuto, l’esame autoptico rivelerà presenza di eroina e ketamina. E’ un aspetto decisivo: la polizia dirà che il ragazzo è morto di overdose, che urlava perché eccitato dal mix di alcol e stupefacenti. 
E’ vero che il ragazzo aveva assunto droghe. Non è vero che la quantità era tale da giustificare un overdose: la ketamina, ad esempio, era 175 volte inferiore alla dose letale. E non è neanche credibile la tesi della droga come eccitante, conisderando che l’eroina (un oppiaceo) ha casomai effetto sedativo.
La famiglia Aldrovandi ha sempre negato che Federico facesse uso regolare di droghe. Era solo un ragazzo di 18 anni che, quella sera, aveva esagerato un po’. Quello che è successo a lui, poteva succedere a tutti.
Federico muore poco dopo le 6 del mattino. Era disarmato e incensurato.

La famiglia viene avvertita cinque ore dopo. Su youtube, e sul blog di Beppe Grillo, è presente il video della Scientifica. C’è il corpo di Aldrovandi a terra, segni di colluttazione. Si sentono i poliziotti che ridono.
La comunicazione tra Centrale e poliziotti, tre uomini e una donna, riporta frasi di questo tenore: "L’abbiamo bastonato di brutto". Il Giudice di Ferrara, lo scorso 6 luglio, ha certificato come i quattro poliziotti hanno ucciso il ragazzo con sequela infinita di manganellate e calci. Sono stati condannati in primo grado a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo.
La vita di un ragazzo senza colpe vale 3 anni e sei mesi. Anzi, neanche quelli, perché c’è l’indulto. La Polizia non ha radiato i quattro poliziotti. Gli amici di Federico Aldrovandi la stanno chiedendo, chi fosse d’accordo può scrivere a MAURO.CORRADINI.ALDROVANDI@GMAIL.COM:  Testo: "Aderisco alla richiesta di sospensione dal servizio dei 4 agenti della P.S. responsabili della morte di Federico Aldrovandi".
In rete trovate di tutto. Anche nella graphic novel. Ma nulla sarebbe stato svelato senza l’eroismo della signora Patrizia, madre di Federico, che il 2 gennaio 2006 ha aperto un blog per far luce sulla morte del figlio.  Da lì tutto è nato. Altri blog, l’interesse dei giornali, la vicinanza di Grillo, i libri, le meritorie inchieste di Chi l’ha visto? su RaiTre. La società civile che si muove. E una città, Ferrara, che per metà si chiude a riccio.  E minacce alla famiglia, e la Polizia che fa quadrato.  E un senso crescente di democrazia sospesa.

E’ una storia che non ha spiegazione alcuna. Una storia sbagliata, cantava Fabrizio De André. £Un omicidio di Stato". Forse Aldrovandi urlava davvero di notte. Forse era eccitato, forse ubriaco. Non lo sapremo. Sappiamo invece, adesso, il dopo. Quattro poliziotti che spezzano i manganelli (letteralmente) a furia di picchiarlo. Calci e ginocchiate al punto da spezzargli lo scroto. Il volto tumefatto, i vestiti zuppi di sangue. Il corpo trascinato barbaramente sull’asfalto. Il ragazzo che grida aiuto, senza che nessuno si fermi o intervenga in suo soccorso. Una mattanza durata decine di minuti e poi insabbiata (o meglio: quasi insabbiata). I poliziotti si sono difesi sostenendo tesi lisergiche: Aldrovandi era così eccitato che si faceva male da solo. Il volto tumefatto? Dava le testate contro l’auto. Il testicolo squarciato? E’ saltato a cavalcioni sul tetto dello sportello aperto, manco fosse una tartaruga Ninja. La morte? Un infarto, troppa eccitazione da overdose. No: l’autopsia ha rivelato che decisiva è risultata la pressione di uno o più poliziotti sulla schiena, che ha creato ipossia (mancanza di ossigeno) al ragazzo, peraltro ammanettato. Secondo il cardiologo, il cuore di Federico avrebbe cessato di battere dopo l’ennesimo colpo ricevuto.
E’ una storia di testimoni che prima parlano e poi si nascondono, di omissioni, di prove scomparse. Dell’ex ministro Giovanardi che minimizza in tivù, di un ragazzo normale fatto passare per un tossico mezzo matto. Di una città che non si schiera. Di una madre, di una famiglia ferite a morte. Eppur vive.
E’ una storia che fa molto Italia.

La sentenza del Giudice Filippo Maria Caruso (Ferrara)
Le deposizioni dei 4 agenti (Gazzetta di Parma)
Il Caso Aldrovandi si Wikipedia
Il video della Scientifica dopo la morte di Aldrovandi
Il blog della madre di Federico

Black (or white) humour

Polemiche sui primi soccorsi prestati a Michael Jackson: non sarebbero stati appropriati. Ma d’altronde, cosa si può pretendere da dei bambini? (Dario Sevieri)

Su DanieleLuttazzi.it potete leggere uno spettacolare intervento che spiega come mai le battute su Michael Jackson abbondino e soprattutto mi facciano piegare dal ridere a 48 ore dalla sua morte.

Ai figli di domani

Le parole di un ragazzo persiano:

Ho deciso che parteciperò alle manifestazioni di domani. Forse diverranno violente. Forse sarò una delle persone che saranno uccise. Sto ascoltando la mia musica preferita. Voglio addirittura ballarla, qualche canzone. [In Iran musica e balli sono vietati, Nota mia] Ci sono anche alcune grandi scene di film che voglio rivedere. Devo anche tirar giù la libreria. Val la pena leggere le poesie di Forough e Shamloo una volta di più. Tutte le foto della mia famiglia devono essere viste una volta ancora, anche loro. Devo anche chiamare i miei amici per dir loro ciao. Tutto quello che ho sono due scaffali di libri, ho detto alla mia famiglia a chi darli. Mi mancano due esami [capitoli] per laurearmi, ma che importa di questo. La mia mente è in subbuglio e confusione. Ho scritto queste frasi casuali per la prossima generazione perché sappiano che non eravamo solamente in preda all’emotività o spinti dai nostri coetanei. Perché essi sappiamo che abbiamo fatto tutto il possibile per creare un futuro migliore per loro. Perché sappiano che i nostri antenati si sono arresi agli arabi e ai mongoli, ma non si sono arresi al dispotismo. Questo appunto è dedicato ai figli di domani…

Il resto qui

Per chi non se ne fosse accorto

In Iran in questi giorni stanno succedendo un bel po’ di cose interessanti. Una rivoluzione? Riccardo (il nostro coinquilino che studia persiano e che a settembre – se tutto va bene – se ne andrà in Iran) dice di no. Semplicemente una rivolta dopo delle elezioni smaccatamente truccate. Una rivolta che probabilmente finirà soffocata, in un modo o nell’altro, ma che comunque da a tutti un esempio illuminante di civiltà e di desiderio di libertà.

Per chi – come me – non fosse così à la page riguardo alla situazione iraniana, pubblico un efficace bignami del solito Francesco Costa:


Prima del voto
In Iran si vota ogni quattro anni per eleggere il presidente e i membri del parlamento. Nonostante questo, definire l’Iran una democrazia è una barzelletta: l’Iran è una teocrazia fondamentalista che vede al potere un sovrano assoluto – la guida suprema, l’ayatollah – e relega alle istituzioni elette poteri del tutto ininfluenti. In realtà è un eufemismo anche il verbo ‘eleggere’: solo i candidati approvati dagli ayatollah possono essere ammessi al voto, un voto al quale gli osservatori internazionali indipendenti non hanno mai assistito. Per non parlare dei mezzi di comunicazione, completamente sdraiati sulle posizioni del regime, di internet, continuamente oscurato, della libertà di espressione del proprio pensiero, inesistente, delle continue violazioni dei diritti umani, delle angherie commesse dalla polizia morale su donne e omosessuali, delle innumerevoli condanne a morte ai danni anche di minorenni, e l’elenco potrebbe continuare. Ben lungi dall’essere una democrazia, l’Iran è una delle dittature più efferate e violente che questo mondo abbia conosciuto. Ogni quattro anni il regime mette in piede il teatrino delle elezioni, e dopo aver accettato solo candidature gradite, aver blindato i mezzi di comunicazione e la campagna elettorale, chiede ai propri cittadini di andare a votare, in un clima di intimidazioni e violenze. Il risultato, che piaccia o no ai cittadini, è già stato deciso dagli ayatollah. A questo giro si sfidavano il presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad, espressione sopraffina della violenza retrograda del regime, e Mir-Hossein Mousavi, nel ruolo del candidato “moderato”. Mousavi non è uno per cui una persona libera e democratica potrebbe fare il tifo: i suoi proclami sono sostanzialmente quelli degli ayatollah, sebbene siano esposti senza la violenza verbale del suo avversario. Un volto presentabile, insomma, con qualche differenza un po’ più concreta, soprattutto a livello di immagine e linguaggio. Un esempio su tutti: di Ahmadinejad si ricorda una solo foto in compagnia della moglie, ed è una foto terribile. Mousavi e la moglie hanno fatto campagna elettorale insieme – direi all’americana, se non fosse un po’ una bestemmia – e non sono mancati i proclami di buone intenzioni. Che non sono tutto, ma non sono nemmeno niente: sono una differenza. Fino a sette, dieci giorni prima del voto, gli osservatori e i commentatori erano unanimi del dare Ahmadinejad in leggero vantaggio, nonostante la sua crescente impopolarità. A un certo punto però è successo qualcosa. Ne avrete letto in giro, se n’è parlato come della green wave iraniana, l’onda verde. Attorno a Mousavi si è formato un clima di fermento e attesa: comizi frequentatissimi, slogan provocatori verso il regime, centinaia di ragazzi in strada, atmosfera elettrica da grandi cambiamenti. Un entusiasmo tale da non poter essere giustificato dal profilo del candidato, bensì semmai da un rigetto nei confronti del regime, alle prese peraltro con gli effetti della crisi economica. Qui si dovrebbe fare un lungo racconto della società iraniana, di come è diversa da quella degli altri paesi arabi, di come solo trent’anni fa quel paese fosse un altro paese. Si era come risvegliato qualcosa.

Il voto
Come dicevamo, il voto in Iran è una farsa e questa ne è stata la prova ultima e definitiva. I risultati delle elezioni approvati dagli ayatollah poche ore dopo la chiusura dei seggi, la distribuzione bizzarra dei consensi (la stessa percentuale dappertutto, persino nel villaggio di nascita di Mousavi), il blocco dei sistemi di conteggio indipendenti dei candidati, i messaggi contraddittori provenienti dai luoghi degli scrutini: le incongruenze sono innumerevoli. La notizia non è tanto questa – sebbene stupisca la fretta, l’approssimazione e la superficialità con cui i trogloditi al potere abbiano orchestrato questo teatrino – bensì quello che è accaduto dopo. Un casino.

Dopo il voto
Un casino inenarrabile e inimmaginabile, per un paese del quale conoscevamo la presenza di un generale malcontento ma non una tale instabilità sociale. Le strade si sono riempite di manifestazioni di protesta nei confronti di un regime che ha subito mostrato tutto il repertorio di ogni dittatura degna di questo nome: repressioni violente, scontri, spari, blocco delle linee telefoniche e del traffico cellulare, ostacoli per i collegamenti internet, cacciata dei giornalisti stranieri, eccetera. Mousavi è stato messo agli arresti domiciliari, insieme a un centinaio di suoi sostenitori. Si racconta di morti e diversi feriti, ma nessuno ha delle cifre precise. Mi sembra si tratti più di una ribellione nei confronti del regime, degli ayatollah, dell’autorità statale, piuttosto che di un rifiuto del fondamentalismo islamico e della legge religiosa come legge dello stato. Mi sembra si tratti di una confusa richiesta di libertà, e non di una rivoluzione organizzata attorno a un’idea, a un progetto, a una volontà di sovvertire l’Iran come lo conosciamo. È una cosa che avrà altre fiammate, da qui ai prossimi giorni, ma che è comunque destinata a essere repressa e spegnersi, a meno di sorprese.

L’occasione
Una cosa simile è già successa, in passato, anche se non in Iran. Successe in Cina, esattamente vent’anni fa, e oggi come allora la scintilla non fu una manifestazione per la libertà di parola, la richiesta di libere elezioni o l’oscuramento dei mezzi di comunicazione. Vent’anni fa in Cina le proteste nacquero addirittura dalle manifestazioni di cordoglio per la morte del leader del partito comunista cinese, e la scintilla fu la pressante richiesta di riforme economiche. Cosa successe? Successe che le proteste durarono un po’, un bel po’, e poi, violenza dopo violenza, cessarono. Il regime attuò alcune riforme in senso capitalista e imparò a gestire diversamente le mobilitazioni popolari, garantendosi la sopravvivenza per molto tempo ancora. La scintilla di libertà dei ragazzi cinesi era stata soffocata. A me sembra che in Iran stia accadendo qualcosa di molto simile. Non stiamo assistendo a una rivoluzione che può sovvertire il regime degli ayatollah. Stiamo assistendo a un grido di aiuto, a una confusa richiesta di libertà, da parte di chi oggi forse non immagina bene nemmeno cosa voglia dire, essere liberi. Quindi ricorre agli unici modelli che ha, all’unico codice che conosce. La religione. I ragazzi per le strade di Teheran urlano Allahu Akbar, ma si fanno arringare da una donna. Il verde islam è il loro colore, ma chiedono di essere liberi di scegliere da chi farsi governare. Queste manifestazioni sono un’occasione, una scintilla di libertà che è difficile non riconoscere. Non è detto però che i loro effetti saranno obbligatoriamente positivi. Possono finire nel nulla tra dieci giorni, possono convincere il regime a darsi un volto più presentabile e garantirsi la sopravvivenza. Oppure possono sovvertire gli ayatollah, e non cambiare niente comunque. I genitori di questi ragazzi ricordano bene quanto accadde nel 1979, quando dopo la cacciata dello scià il vuoto di potere, regole e autorità venne colmato dall’unico sistema di potere, regole e autorità che era rimasto in piedi, cioè l’islam. E qui entriamo in gioco noi.

 

Se non ora, quando?
Sì, noi. La comunità internazionale non può rimanere a guardare. Una delle più efferate dittature di questo mondo è nel suo momento di massima difficoltà, ma questo non basterà a farla cadere se non le diamo una spintarella. Lo so, è dura, le controindicazioni possono essere decine, ma a me sembra che difficilmente ricapiterà un’occasione così: ora o mai più. Come? Ci sono tante cose che si possono fare, nella scala che va dalle dichiarazioni di solidarietà verso i manifestanti, fino all’intervento di una forza multilaterale sotto la guida dell’Onu (d’altra parte, se è vero che “la democrazia bisogna volerla e meritarsela”, direi che gli iraniani ci stanno dando ben più di un indizio sui loro desideri). Ci sono pressioni che si possono esercitare, alleanze che si possono stringere, minacce che si possono fare. Ma facciamo qualcosa, non voltiamoci dall’altra parte. Non facciamo sì che ci passi invano davanti agli occhi una nuova Tiananmen.

Per saperne di più

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