Alltrove…

Il 10 novembre si è votato nuovamente in Moldavia per eleggere il presidente della repubblica. Era l’ennesimo tentativo di porre fine a una situazione di stallo che dura da mesi, precisamente da aprile, a seguito di una legge elettorale da matti (sbarramenti e quorum altissimi) che l’Unione europea ha più volte esortato a modificare.
Moldova - mapAd aprile le elezioni politiche furono vintein modo molto contestatodai comunisti di Voronin, che conquistarono però un seggio in meno dei sessantuno necessari per eleggere il capo dello stato. Dopo due tentativi,celebrati tra aprile e giugno, di raggiungere i sessantuno voti in parlamento a favore di un candidato, si sono disputate nuovamente le elezioni politiche: la costituzione infatti prevede che dopo due scrutini a vuoto l’assemblea venga sciolta. Nuove elezioni, quindi, e maggioranza parlamentare che va agli avversari dei comunisti, il fronte filo-europeo guidato da Marian Lupu: anche stavolta però senza raggiungere i sessantuno seggi di cui sopra. Il primo scrutinio doveva tenersi il 23 ottobre ma è stato annullato perché la costituzione moldava – altro prodigio – non prevede la possibilità che ci sia un solo candidato alla carica. Trovato un secondo candidato, il voto ha avuto luogo il 10 novembre e i quarantotto parlamentari comunisti hanno abbandonato in blocco l’aula, impedendo ai cinquantatre democratici di raggiungere l’agognata quota sessantuno. Il secondo tentativo si terrà alla fine del mese: facesse cilecca anche quello, il parlamento sarebbe nuovamente sciolto e si andrebbe nuovamente alle elezioni politiche, ma bisognerebbe aspettare il 2010: la costituzione non permette di indire elezioni anticipate per due volte nello stesso anno. Un bel casino.

Fonte: Francesco Costa

Yoany Sanchez sequestrata e malmenata a Cuba

Nei pressi di calle 23, proprio alla rotonda dell’avenida de los Presidente, abbiamo visto arrivare a bordo di un’auto nera – di fabbricazione cinese – tre robusti sconosciuti: “Yoani, sali in auto” mi ha detto il primo afferrandomi con forza per un polso. Gli altri due trattenevano Claudia Cadelo, Orlando Luís Pardo Lazo e un’amica che ci accompagnava a una marcia contro la violenza. Ironia della vita, quella che doveva essere una giornata di pace e concordia si è trasformata in una serata carica di botte, grida e male parole. Gli stessi “aggressori” hanno chiamato una pattuglia che si è portata via gli altri miei due compagni, Orlando e io eravamo condannati all’auto con targa gialla, lo spaventoso terreno dell’illegalità e dell’impunità per l’Armageddon (1). Mi sono rifiutata di salire sul brillante Jelly e abbiamo preteso che si identificassero e mostrassero un mandato giudiziario che li autorizzasse a portarci via. Non ci hanno fatto vedere nessuna carta che provasse la legittimità del nostro arresto. I curiosi si accalcavano intorno e io gridavo: “Aiuto, questi uomini ci vogliono sequestrare”, ma loro hanno fermato chi voleva intervenire con un grido che rivelava tutto il fondamento ideologico dell’operazione: “Non vi intromettete, questi sono dei controrivoluzionari”. Di fronte alla nostra resistenza verbale, hanno preso il telefono e hanno detto a qualcuno che doveva essere il loro capo: “Cosa facciamo? Non vogliono salire sull’auto”. Immagino che all’altro lato la risposta sia stata categorica, perché dopo ci hanno riempito di botte e spintoni, mi hanno caricato con la testa verso il basso e hanno tentato di infilarmi nell’auto. Ho afferrato la porta, ricevendo colpi sulle mani, sono riuscita a togliere un foglio che uno di loro portava in tasca e me lo sono messo in bocca. Mi sono presa un’altra scarica di botte perché restituissi il documento. Orlando era già dentro l’auto, immobilizzato da una mossa di karate che lo faceva stare con la testa verso il pavimento. Uno ha messo le sue ginocchia sul mio petto e l’altro, dal sedile anteriore mi colpiva nella zona dei reni e sulla testa per farmi aprire la bocca e liberare il documento. Per un istante, ho temuto che non sarei più uscita da quell’auto. “Sei arrivata fino a qui, Yoani”, “Adesso la finirai di fare pagliacciate”, ha detto quello che era seduto accanto all’autista e che mi tirava i capelli. Nel sedile posteriore si poteva assistere a uno spettacolo molto strano: le mie gambe verso l’alto, il mio volto arrossato per la pressione e il corpo indolenzito, all’altro lato c’era Orlando conciato male da un picchiatore professionista. In un gesto di disperazione sono riuscita ad afferrare, dai pantaloni, i testicoli di questo personaggio. Ho affondato le mie unghie, supponendo che lui avrebbe continuato a schiacciare il mio petto fino all’ultimo respiro. “Uccidimi adesso”, gli ho gridato, con il fiato che mi restava, ma quello che stava nei sedili anteriori ha detto al più giovane: “Lasciala respirare”. Sentivo Orlando ansimare e le botte continuavano a cadere su di noi, ho pensato per un attimo di aprire la porta e gettarmi fuori, ma all’interno non c’era una maniglia utilizzabile. Eravamo nelle loro mani ma ascoltare la voce di Orlando mi rincuorava. In seguito lui mi ha detto che gli accadeva lo stesso ascoltando le mie parole rotte dai singhiozzi… perché gli dicevano “Yoani è ancora viva”. Ci hanno lasciati in pessime condizioni, scaraventandoci in una strada della Timba, una donna si è avvicinata: “Che cosa vi è successo?”… “Un sequestro”, ho risposto. Ci siamo messi a piangere abbracciati in mezzo al marciapiede, pensavo a Teo, non sapevo come avrei potuto spiegargli quel che avevo passato. Come potrò dirgli che vive in un paese dove succedono queste cose, come potrò guardarlo e raccontargli che sua madre è stata malmenata in mezzo alla strada perché scrive un blog dove esprime le sue opinioni in kilobytes. Come potrò descrivergli il volto autoritario di chi ci ha fatto salire con la forza su quella macchina, il piacere che si leggeva sui loro volti mentre ci percuotevano, alzavano la mia gonna e mi trascinavano seminuda verso l’auto. Sono riuscita a vedere, nonostante tutto, il livello di agitazione dei nostri aggressori, la paura del nuovo, delle cose che non possono distruggere perché non le comprendono, il terrore del gradasso che sa di avere i giorni contati.

Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

70 italiani su 100 stanno con Berlusconi. Staranno stretti…

Home Page Il Giornale - 7 ottobre 2009

Mentre la corte costituzionale discuteva del Lodo Alfano (ora soprannominato "Godo Alfano" dopo che è stato giustamente cassato dalla Corte stessa) questa qui sopra era l’lHome Page del sito de Il Giornale. Le evidenziazioni sono mie, ovviamente.

Faziosi? Loro? Nooooo

Show

La seconda guerra mondiale fu sotto gli occhi di tutti, per forza di cose. Proprio per questo forse gli stati coinvolti capirono che non era più il caso di mettere in pericolo la propria popolazione – e di conseguenza il consenso elettorale – con guerre alla luce del sole. Meglio concentrarsi su conflitti laterali, in sordina.

La guerra del Vietnam fu sicuramente un fallimento, da questo punto di vista. Benché combattuta lontano dal suolo americano fu una guerra documentata, raccontata, spiegata in ogni dettaglio ai familiari, agli americani, agli elettori. Ecco perché invece in Afghanistan, e in Iraq, i giornalisti sono meno, sono embedded e quindi i racconti e le immagini che passano attraverso i vari passaggi ed arrivano al pubblico sono poche.

Talmente poche che una foto come questa, l’immagine di un marine morente come ne esistono tante della WWII, può arrivare a destare polemiche. Joshua Bernard, un ragazzo di ventun anni, nato quindi nel 1988, viene inviato a migliaia di kilometri da casa a combattere una guerra contro una fazione politica colpevole (secondo il ragazzo in questione) di fomentare il terrorismo internazionale. Questo ragazzo, durante un’azione di combattimento, viene colpito e muore. Quell’istante viene fermato da un fotografo e pubblicato, dopo le esequie del ragazzo. Non sarebbe forse scandaloso il contrario?

C’è chi dice che questa foto non avrebbe mai dovuto essere mostrata, per rispetto al caduto o ai familiari.
Io dico che questo è stato, non è un film o una pièce teatrale. I commilitoni di quel ragazzo non potevano esimersi dal vedere, e non è giusto che noi non vediamo. Mi stupisce anzi che nel 2009 se ne stia ancora a discutere. Questa guerra – queste guerre sono nascoste ai nostri occhi anche da un velo di falso rispetto, che spesso cela l’ipocrisia di chi non vuole affrontare le conseguenze delle proprie scelte o non scelte. Comunque la si pensi dei giovani stanno morendo, e quando un ragazzo muore col terrore negli occhi non vedo giustizia.

Altri mondi?

Andrea Scanzi per La Stampa:

Ci sono storie che gelano il sangue. Di solito, sono storie che non si raccontano mai fino in fondo. Per non ferire o per non disturbare il manovratore. Chi scrive ha il nervo (particolarmente) scoperto per le violenze di Stato. Per il sopruso della Legge. Per il manganello facile.
Chi scrive prova imbarazzo e disgusto, se pensa alla mattanza della scuola Diaz, alle torture di Bolzaneto (tutte impunite) e alla verità ufficiali che hanno reso più "accettabile" la morte di Carlo Giuliani.  Chi scrive prova terrore se pensa a quanto accaduto a Ferrara nella notte del 25 settembre 2005.

Le storie terribili vanno raccontate con leggerezza e precisione. In questo senso, le graphic novel aiutano. Ne escono di meravigliose, qualche giorno fa ho terminato Pyongyang di Guy Delisle: stupendo. E’ dunque oltremodo consigliabile Zona del silenzio, di Checchino Antonini e Alessio Spataro. La prefazione, impeccabile, è di Girolamo Di Michele. Il libro, che riecheggia per disegni il grande Maus di Art Spiegelman, è uscito un mese fa per Minimum Fax. Racconta l’omicidio di Federico Aldrovandi. E’ tutto vero, al di là dei nomi (ironicamente) mutati di alcuni giornalisti, politici e quotidiani. E’ un libro che racconta come per alcuni il "diverso" non sia che una zecca. Qualcosa da umiliare e ridicolizzare, nel nome della legge.
 "Zona del silenzio" era il cartello in Via dell’Ippodromo a Ferrara, davanti al quale il ragazzo è morto. Non si saprà mai quando tutto è cominciato. Probabilmente una signora di Ferrara ha chiamato il 113 perché disturbata dalle urla di un ragazzo nella notte. Quel ragazzo è Federico Aldrovandi, 18 anni. 

Sono, più o meno, le 5 del mattino. Federico ha passato la serata con gli amici e ha chiesto di essere sceso lì. Ha bevuto, l’esame autoptico rivelerà presenza di eroina e ketamina. E’ un aspetto decisivo: la polizia dirà che il ragazzo è morto di overdose, che urlava perché eccitato dal mix di alcol e stupefacenti. 
E’ vero che il ragazzo aveva assunto droghe. Non è vero che la quantità era tale da giustificare un overdose: la ketamina, ad esempio, era 175 volte inferiore alla dose letale. E non è neanche credibile la tesi della droga come eccitante, conisderando che l’eroina (un oppiaceo) ha casomai effetto sedativo.
La famiglia Aldrovandi ha sempre negato che Federico facesse uso regolare di droghe. Era solo un ragazzo di 18 anni che, quella sera, aveva esagerato un po’. Quello che è successo a lui, poteva succedere a tutti.
Federico muore poco dopo le 6 del mattino. Era disarmato e incensurato.

La famiglia viene avvertita cinque ore dopo. Su youtube, e sul blog di Beppe Grillo, è presente il video della Scientifica. C’è il corpo di Aldrovandi a terra, segni di colluttazione. Si sentono i poliziotti che ridono.
La comunicazione tra Centrale e poliziotti, tre uomini e una donna, riporta frasi di questo tenore: "L’abbiamo bastonato di brutto". Il Giudice di Ferrara, lo scorso 6 luglio, ha certificato come i quattro poliziotti hanno ucciso il ragazzo con sequela infinita di manganellate e calci. Sono stati condannati in primo grado a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo.
La vita di un ragazzo senza colpe vale 3 anni e sei mesi. Anzi, neanche quelli, perché c’è l’indulto. La Polizia non ha radiato i quattro poliziotti. Gli amici di Federico Aldrovandi la stanno chiedendo, chi fosse d’accordo può scrivere a MAURO.CORRADINI.ALDROVANDI@GMAIL.COM:  Testo: "Aderisco alla richiesta di sospensione dal servizio dei 4 agenti della P.S. responsabili della morte di Federico Aldrovandi".
In rete trovate di tutto. Anche nella graphic novel. Ma nulla sarebbe stato svelato senza l’eroismo della signora Patrizia, madre di Federico, che il 2 gennaio 2006 ha aperto un blog per far luce sulla morte del figlio.  Da lì tutto è nato. Altri blog, l’interesse dei giornali, la vicinanza di Grillo, i libri, le meritorie inchieste di Chi l’ha visto? su RaiTre. La società civile che si muove. E una città, Ferrara, che per metà si chiude a riccio.  E minacce alla famiglia, e la Polizia che fa quadrato.  E un senso crescente di democrazia sospesa.

E’ una storia che non ha spiegazione alcuna. Una storia sbagliata, cantava Fabrizio De André. £Un omicidio di Stato". Forse Aldrovandi urlava davvero di notte. Forse era eccitato, forse ubriaco. Non lo sapremo. Sappiamo invece, adesso, il dopo. Quattro poliziotti che spezzano i manganelli (letteralmente) a furia di picchiarlo. Calci e ginocchiate al punto da spezzargli lo scroto. Il volto tumefatto, i vestiti zuppi di sangue. Il corpo trascinato barbaramente sull’asfalto. Il ragazzo che grida aiuto, senza che nessuno si fermi o intervenga in suo soccorso. Una mattanza durata decine di minuti e poi insabbiata (o meglio: quasi insabbiata). I poliziotti si sono difesi sostenendo tesi lisergiche: Aldrovandi era così eccitato che si faceva male da solo. Il volto tumefatto? Dava le testate contro l’auto. Il testicolo squarciato? E’ saltato a cavalcioni sul tetto dello sportello aperto, manco fosse una tartaruga Ninja. La morte? Un infarto, troppa eccitazione da overdose. No: l’autopsia ha rivelato che decisiva è risultata la pressione di uno o più poliziotti sulla schiena, che ha creato ipossia (mancanza di ossigeno) al ragazzo, peraltro ammanettato. Secondo il cardiologo, il cuore di Federico avrebbe cessato di battere dopo l’ennesimo colpo ricevuto.
E’ una storia di testimoni che prima parlano e poi si nascondono, di omissioni, di prove scomparse. Dell’ex ministro Giovanardi che minimizza in tivù, di un ragazzo normale fatto passare per un tossico mezzo matto. Di una città che non si schiera. Di una madre, di una famiglia ferite a morte. Eppur vive.
E’ una storia che fa molto Italia.

La sentenza del Giudice Filippo Maria Caruso (Ferrara)
Le deposizioni dei 4 agenti (Gazzetta di Parma)
Il Caso Aldrovandi si Wikipedia
Il video della Scientifica dopo la morte di Aldrovandi
Il blog della madre di Federico

Ai figli di domani

Le parole di un ragazzo persiano:

Ho deciso che parteciperò alle manifestazioni di domani. Forse diverranno violente. Forse sarò una delle persone che saranno uccise. Sto ascoltando la mia musica preferita. Voglio addirittura ballarla, qualche canzone. [In Iran musica e balli sono vietati, Nota mia] Ci sono anche alcune grandi scene di film che voglio rivedere. Devo anche tirar giù la libreria. Val la pena leggere le poesie di Forough e Shamloo una volta di più. Tutte le foto della mia famiglia devono essere viste una volta ancora, anche loro. Devo anche chiamare i miei amici per dir loro ciao. Tutto quello che ho sono due scaffali di libri, ho detto alla mia famiglia a chi darli. Mi mancano due esami [capitoli] per laurearmi, ma che importa di questo. La mia mente è in subbuglio e confusione. Ho scritto queste frasi casuali per la prossima generazione perché sappiano che non eravamo solamente in preda all’emotività o spinti dai nostri coetanei. Perché essi sappiamo che abbiamo fatto tutto il possibile per creare un futuro migliore per loro. Perché sappiano che i nostri antenati si sono arresi agli arabi e ai mongoli, ma non si sono arresi al dispotismo. Questo appunto è dedicato ai figli di domani…

Il resto qui

Per chi non se ne fosse accorto

In Iran in questi giorni stanno succedendo un bel po’ di cose interessanti. Una rivoluzione? Riccardo (il nostro coinquilino che studia persiano e che a settembre – se tutto va bene – se ne andrà in Iran) dice di no. Semplicemente una rivolta dopo delle elezioni smaccatamente truccate. Una rivolta che probabilmente finirà soffocata, in un modo o nell’altro, ma che comunque da a tutti un esempio illuminante di civiltà e di desiderio di libertà.

Per chi – come me – non fosse così à la page riguardo alla situazione iraniana, pubblico un efficace bignami del solito Francesco Costa:


Prima del voto
In Iran si vota ogni quattro anni per eleggere il presidente e i membri del parlamento. Nonostante questo, definire l’Iran una democrazia è una barzelletta: l’Iran è una teocrazia fondamentalista che vede al potere un sovrano assoluto – la guida suprema, l’ayatollah – e relega alle istituzioni elette poteri del tutto ininfluenti. In realtà è un eufemismo anche il verbo ‘eleggere’: solo i candidati approvati dagli ayatollah possono essere ammessi al voto, un voto al quale gli osservatori internazionali indipendenti non hanno mai assistito. Per non parlare dei mezzi di comunicazione, completamente sdraiati sulle posizioni del regime, di internet, continuamente oscurato, della libertà di espressione del proprio pensiero, inesistente, delle continue violazioni dei diritti umani, delle angherie commesse dalla polizia morale su donne e omosessuali, delle innumerevoli condanne a morte ai danni anche di minorenni, e l’elenco potrebbe continuare. Ben lungi dall’essere una democrazia, l’Iran è una delle dittature più efferate e violente che questo mondo abbia conosciuto. Ogni quattro anni il regime mette in piede il teatrino delle elezioni, e dopo aver accettato solo candidature gradite, aver blindato i mezzi di comunicazione e la campagna elettorale, chiede ai propri cittadini di andare a votare, in un clima di intimidazioni e violenze. Il risultato, che piaccia o no ai cittadini, è già stato deciso dagli ayatollah. A questo giro si sfidavano il presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad, espressione sopraffina della violenza retrograda del regime, e Mir-Hossein Mousavi, nel ruolo del candidato “moderato”. Mousavi non è uno per cui una persona libera e democratica potrebbe fare il tifo: i suoi proclami sono sostanzialmente quelli degli ayatollah, sebbene siano esposti senza la violenza verbale del suo avversario. Un volto presentabile, insomma, con qualche differenza un po’ più concreta, soprattutto a livello di immagine e linguaggio. Un esempio su tutti: di Ahmadinejad si ricorda una solo foto in compagnia della moglie, ed è una foto terribile. Mousavi e la moglie hanno fatto campagna elettorale insieme – direi all’americana, se non fosse un po’ una bestemmia – e non sono mancati i proclami di buone intenzioni. Che non sono tutto, ma non sono nemmeno niente: sono una differenza. Fino a sette, dieci giorni prima del voto, gli osservatori e i commentatori erano unanimi del dare Ahmadinejad in leggero vantaggio, nonostante la sua crescente impopolarità. A un certo punto però è successo qualcosa. Ne avrete letto in giro, se n’è parlato come della green wave iraniana, l’onda verde. Attorno a Mousavi si è formato un clima di fermento e attesa: comizi frequentatissimi, slogan provocatori verso il regime, centinaia di ragazzi in strada, atmosfera elettrica da grandi cambiamenti. Un entusiasmo tale da non poter essere giustificato dal profilo del candidato, bensì semmai da un rigetto nei confronti del regime, alle prese peraltro con gli effetti della crisi economica. Qui si dovrebbe fare un lungo racconto della società iraniana, di come è diversa da quella degli altri paesi arabi, di come solo trent’anni fa quel paese fosse un altro paese. Si era come risvegliato qualcosa.

Il voto
Come dicevamo, il voto in Iran è una farsa e questa ne è stata la prova ultima e definitiva. I risultati delle elezioni approvati dagli ayatollah poche ore dopo la chiusura dei seggi, la distribuzione bizzarra dei consensi (la stessa percentuale dappertutto, persino nel villaggio di nascita di Mousavi), il blocco dei sistemi di conteggio indipendenti dei candidati, i messaggi contraddittori provenienti dai luoghi degli scrutini: le incongruenze sono innumerevoli. La notizia non è tanto questa – sebbene stupisca la fretta, l’approssimazione e la superficialità con cui i trogloditi al potere abbiano orchestrato questo teatrino – bensì quello che è accaduto dopo. Un casino.

Dopo il voto
Un casino inenarrabile e inimmaginabile, per un paese del quale conoscevamo la presenza di un generale malcontento ma non una tale instabilità sociale. Le strade si sono riempite di manifestazioni di protesta nei confronti di un regime che ha subito mostrato tutto il repertorio di ogni dittatura degna di questo nome: repressioni violente, scontri, spari, blocco delle linee telefoniche e del traffico cellulare, ostacoli per i collegamenti internet, cacciata dei giornalisti stranieri, eccetera. Mousavi è stato messo agli arresti domiciliari, insieme a un centinaio di suoi sostenitori. Si racconta di morti e diversi feriti, ma nessuno ha delle cifre precise. Mi sembra si tratti più di una ribellione nei confronti del regime, degli ayatollah, dell’autorità statale, piuttosto che di un rifiuto del fondamentalismo islamico e della legge religiosa come legge dello stato. Mi sembra si tratti di una confusa richiesta di libertà, e non di una rivoluzione organizzata attorno a un’idea, a un progetto, a una volontà di sovvertire l’Iran come lo conosciamo. È una cosa che avrà altre fiammate, da qui ai prossimi giorni, ma che è comunque destinata a essere repressa e spegnersi, a meno di sorprese.

L’occasione
Una cosa simile è già successa, in passato, anche se non in Iran. Successe in Cina, esattamente vent’anni fa, e oggi come allora la scintilla non fu una manifestazione per la libertà di parola, la richiesta di libere elezioni o l’oscuramento dei mezzi di comunicazione. Vent’anni fa in Cina le proteste nacquero addirittura dalle manifestazioni di cordoglio per la morte del leader del partito comunista cinese, e la scintilla fu la pressante richiesta di riforme economiche. Cosa successe? Successe che le proteste durarono un po’, un bel po’, e poi, violenza dopo violenza, cessarono. Il regime attuò alcune riforme in senso capitalista e imparò a gestire diversamente le mobilitazioni popolari, garantendosi la sopravvivenza per molto tempo ancora. La scintilla di libertà dei ragazzi cinesi era stata soffocata. A me sembra che in Iran stia accadendo qualcosa di molto simile. Non stiamo assistendo a una rivoluzione che può sovvertire il regime degli ayatollah. Stiamo assistendo a un grido di aiuto, a una confusa richiesta di libertà, da parte di chi oggi forse non immagina bene nemmeno cosa voglia dire, essere liberi. Quindi ricorre agli unici modelli che ha, all’unico codice che conosce. La religione. I ragazzi per le strade di Teheran urlano Allahu Akbar, ma si fanno arringare da una donna. Il verde islam è il loro colore, ma chiedono di essere liberi di scegliere da chi farsi governare. Queste manifestazioni sono un’occasione, una scintilla di libertà che è difficile non riconoscere. Non è detto però che i loro effetti saranno obbligatoriamente positivi. Possono finire nel nulla tra dieci giorni, possono convincere il regime a darsi un volto più presentabile e garantirsi la sopravvivenza. Oppure possono sovvertire gli ayatollah, e non cambiare niente comunque. I genitori di questi ragazzi ricordano bene quanto accadde nel 1979, quando dopo la cacciata dello scià il vuoto di potere, regole e autorità venne colmato dall’unico sistema di potere, regole e autorità che era rimasto in piedi, cioè l’islam. E qui entriamo in gioco noi.

 

Se non ora, quando?
Sì, noi. La comunità internazionale non può rimanere a guardare. Una delle più efferate dittature di questo mondo è nel suo momento di massima difficoltà, ma questo non basterà a farla cadere se non le diamo una spintarella. Lo so, è dura, le controindicazioni possono essere decine, ma a me sembra che difficilmente ricapiterà un’occasione così: ora o mai più. Come? Ci sono tante cose che si possono fare, nella scala che va dalle dichiarazioni di solidarietà verso i manifestanti, fino all’intervento di una forza multilaterale sotto la guida dell’Onu (d’altra parte, se è vero che “la democrazia bisogna volerla e meritarsela”, direi che gli iraniani ci stanno dando ben più di un indizio sui loro desideri). Ci sono pressioni che si possono esercitare, alleanze che si possono stringere, minacce che si possono fare. Ma facciamo qualcosa, non voltiamoci dall’altra parte. Non facciamo sì che ci passi invano davanti agli occhi una nuova Tiananmen.

Per saperne di più

Per saperne molto di più (in inglese)

Un ripassino…

Mu’ammar Gheddafi è capo di Stato della Libia da quaranta anni – dal 1° settembre del 1969, per la precisione – ovvero da quando alla guida di un colpo di stato militare depose il re Idris. Durante i primi anni del suo regime nazionalizzò le imprese, espulse la comunità italiana, vietò la vendita di alcolici, restaurò la Shari’a, che è quella cosa per cui l’omosessualità è condannata e soppressa e le donne adultere possono essere uccise nei modi più fantasiosi, giusto per dirne una. Negli anni seguenti camminò a braccetto con l’Unione Sovietica, diede il suo sostegno al dittatore ugandese Idi Amin Dada (responsabile di oltre 500.000 morti, secondo Amnesty International) e a Bokassa, altro dittatore sanguinario e cannibale, nonché a organizzazioni terroristiche quali l’IRA e Settembre Nero, che sono quelli del massacro di Monaco, sempre per dirne una. Gheddafi e il suo regime furono i responsabili, secondo le Nazioni unite, dell’attentato terroristico più grave e sanguinario mai realizzato prima dell’11 settembre: un aereo passeggeri esplose sopra Lockerbie, in Scozia, uccidendo duecentosettanta persone. Oggi la Libia è tutt’ora una dittatura militare, in cui i partiti politici sono stati aboliti nel 1972, i sindacati non esistono e la successione avviene secondo la linea dinastica. Fine del ripassino.

Al ripassino andrebbero aggiunte le torture e i campi di concentramento, il macello a cui sono destinate le persone che noi orgogliosamente respingiamo al confine, il “perdurante contesto di violazioni dei diritti umani, la prolungata assenza di indagini e chiarimenti su casi del passato e un clima di paura, in cui la maggior parte dei cittadini ha timore di sollevare questioni relative ad abusi del passato e del presente”, per usare le parole di Amnesty International. Però Gheddafi è il nostro amico dittatore, e quindi oggi lo accogliamo con grandi onori. Gli attribuiamo una laurea honoris causa in giurisprudenza, a lui che delle leggi se ne infischia bellamente. Gli permettiamo di profanare il Senato della Repubblica, a lui che non sa neanche cosa sia un’elezione e reprime quotidianamente le libertà con violenza e prevaricazioni. La giornata di oggi è una pagina nera nella storia della democrazia italiana.

ce lo ricorda Francesco Costa

La tempesta nella quiete

Da un po’ di tempo a questa parte a Verona, piazza Dante il mercoledì si riempie di giovani. Ragazzi e ragazze di tutte le zone della città si ritrovano per chiacchierare, bere qualcosa (rigorosamente portato da casa, visti i prezzi dei bar del centro), suonare musica, fumare e passare una bella serata. Qualcosa che da un lato è talmente normale che sembra stupido mettersi a raccontarlo, ma che dall’altra parte ha del rivoluzionario. In un’era dominata – ed è un fatto – dalla comunicazione, in una città di decine di migliaia di abitanti ancora ci si trova, una sera alla settimana, in piazza. Non occorre sapere necessariamente prima chi ci sarà e chi no: una volta là si troverà qualcuno che si conosce, come sempre.

Pare però che ora sia diventato pericoloso trovarsi in piazza, e non dentro un locale chic o nella sicura solitudine della periferia. Ed è così che Piazza Dante, l’altroieri, è stata teatro di una scena che non avrei mai voluto vedere.

Il resto lo trovate qui.