Post Lauream

Sei anni possono essere tanti, oppure pochi.
Pochi, per un matrimonio
Tanti, per un fidanzamento
Pochi, per una vita
Tanti, per una nuova vita
Pochi, per imparare
Tanti, per imparare ad imparare

Mi ci sono voluti sei anni per imparare ad imparare, e finalmente credo di avercela fatta. E’ anche per questo che sono felice di essermi laureato, ieri, di essere finalmente arrivato in fondo.

A volte mi sono sentito come uno scalatore, di notte, che dorme nella sua amaca appesa su uno strapiombo, e non ricorda più perché è lì e se la motivazione alla base valesse davvero la pena di fare tutto quello sforzo. Quando però arriva in cima la stanchezza svanisce, lasciando il posto alla gioia di una vista impareggiabile, e nell’animo riposano i ricordi belli della salita, gli sforzi più duri e le pareti più scoscese.

E, come ogni scalatore che si rispetti, non sottovaluto la discesa. Ma per qualche giorno almeno vorrei godermi il paesaggio.

Waiting room

Ho dato l’ultimo esame.

Non so se sarà l’ultimo appello, non so ancora il risultato, ma l’esame era l’ultimo. Perché dopo non ce ne sono altri, neanche uno!!!

L’ho dato venerdì, e da allora "si sta come coloro che son sospesi". Come direbbe mia nonna. O Dante.

Stasera usciranno i risultati. Finalmente.

E se

se non l’ho passato, chiederò l’orale, chiederò il riconteggio dei voti, chiederò l’appello, la cassazione, ricorrerò alle tangenti, alle cosecanti, alle corse sugli specchi e alle minacce. A tutto tranne le lacrime, ovviamente.

Ma se

se…

se l’ho passato…

beh, credo che mi sentirò finalmente libero. E tappatevi le orecchie, perchè l’urlo della liberazione non sarà in alcun modo controllabile!

Aspettando Godot

"Caro direttore,
non posso. Io, ricercatore (precario) di filosofia politica, che da anni frequenta l’Università italiana e che si riconosce nei valori di una sinistra moderna, non riesco proprio ad aderire acriticamente alle manifestazioni contro l’ancora inesistente decreto Gelmini. (…)  La Gelmini sbaglia se prevederà tagli indiscriminati, perché finirà con l’avvantaggiare i più ricchi e privilegiati, ma la sinistra dov’era in tutti questi anni in cui nelle università entravano rigorosamente i figli di e i raccomandati, da dove il vincitore del concorso veniva stabilito prima ancora di bandire il concorso e sulla base di accordi fra i vari ordinari, non su quella di un valore scientifico dello studioso e della sua produzione? (…)
Dalla destra ci si possono e forse devono aspettare misure pensate con il criterio della gerarchia sociale, ma dove sta scritto che dalla sinistra ci si debba aspettare il nulla e il silenzio? Perché tutti si sono svegliati solo ora che il governo sembra voler affrontare una situazione che non può più andare avanti in questo modo, fornendo inevitabilmente l’immagine di una sinistra sempre al rimorchio d’idee d’altri, prontissima ed efficace a contestarle ma tristemente incapace di proporne di proprie a tempo debito? (…)
se il sapere degrada presso la generalità degli studenti, a ottenere successo comunque nella società saranno quelli provenienti dalle famiglie agiate, così come a potersi permettere la carriera universitaria saranno soltanto quelli sempre con famiglia ricca alle spalle. Un paese in cui la «famiglia» diventa il fattore più importante di avanzamento dei saperi e delle carriere è inevitabilmente condannato al degrado e all’emarginazione internazionale. Ecco perché non ce la faccio a scendere in piazza con questi studenti (alcuni dei quali anche i miei), in maniera acritica e senza che un tormento interiore s’impossessi del mio animo, senza potergli dire le cose che sto scrivendo qui. Così come non ce la faccio a manifestare a fianco di quei tanti «incardinati» che hanno trovato posto nell’università grazie alle logiche grette e degradanti di cui abbiamo parlato, e che oggi vorrebbero solo che si potesse continuare a vivere come se le vacche fossero sempre grasse e le botti piene. (…)

Vorrei tanto dirgli che ha torto, ma mi sa proprio che ha ragione. Certo, la conferenza dei rettori e le varie associazioni studentesche hanno fatto delle valide controproposte, per fortuna, al Decreto Gelmini, ma resta il fatto che dall’opposizione si è sentito ben poco. Prima, durante e dopo.

Il testo completo (del quale spero di non aver alterato il senso, tagliuzzandolo) è su www.ariannaeditrice.it

scienze della disoccupazione

Scienze della comunicazione è il corso in Scienze della disoccupazione per antonomasia.
E io, orgogliosamente laureata in Comunicazione, mi trovo più o meno d’accordo. Gli insegnamenti non mirano a creare una figura professionale precisa; quando esci sei un comunicatore, ma la prima cosa che impari è che tutto e tutti comunicano sempre.

La mia proposta non è però di abolire i corsi bensì di estendere i suoi insegnamenti a tutti gli istituti superiori. Tutti.
Perché è allucinante quello che sta succedendo in questi giorni – e quello che succede da troppi anni in Italia –  e cioé la mala informazione, o meglio l’assenza di informazione vera.
Ok, storia vecchia: le notizie sono faziose, i giornali sono di parte, tanto ci dicono solo quello che vogliono farci sapere.
Già, lo sappiamo tutti, ma spesso ce ne dimentichiamo quando ascoltiamo i giornali o guardiamo i tg. Prendiamo per oro colato quello che dice il tale e poi ci prendiamo anche la libertà di scrivere a qualche direttore di giornale la nostra opinione in merito, aggiungendo alla fine " anche se ammetto di non essermi troppo informato".

Credo che un po’ di semiotica farebbe bene a tutti: aiuterebbe a ricordarsi che un sinonimo non è la stessa parola e può cambiare il tono di un’intera frase, anche se non sembra.
Credo che conoscere quanto cambia la nostra ricezione di una notizia in base alle immagini che vediamo, alla musica di sottofondo o allo sguardo delle persone inquadrate o intervistate sia un esercizio di libertà, che sveglierebbe la curiosità di molti che, prima di farsi un’opinione, magari cercherebbero qualche fonte in più.

Sulla scuola e sulle manifestazioni degli studenti non si sta facendo disinformazione o informazione faziosa, si sta facendo confusione e basta. Sembrano le chiacchere fatte al bar: le notizie arrivano ad ondate, non si cerca nemmeno di raccontarle, di darne un’interpretazione: si guarda fuori dalla finestra per un po’ e si scrive. Magari aggiungendo qualche ipotesi "magari questi vogliono rifare il ’68" (nulla di più lontano dal vero). E la gente che ascolta la tv la sera stanca, o che legge gli strilloni passando davanti ad un’edicola riceve solo slogan, solo flash e si costruire nella testa un’altra storia, più o meno distante dalla realtà.

Ma sono soltanto parole, in fin dei conti, no? Il nostro presidente del consiglio ci dimostra quanto poco valgano le parole. Ma è qui l’errore. Una cosa detta, ridetta, ripetuta e amplificata finisce per essere creduta più qualsiasi fatto reale. È una palla di neve che diventa valanga e che rischia di schiacciare persone reali, non parole.

Ecco perché tutti dovremmo avere gli strumenti per comunicare, chi comunica e chi riceve e ricomunica a sua volta.
Perché le parole possono essere molto più pericolose di quanto il cittadino che scrive al direttore pensando di fare un atto di libertà possa pensare.

La politica della paura

"Sai cosa c’è? Alla fine uno si rompe le balle di avere paura. Ho 22 anni e vivo ogni giorno a sotto ricatto. Paura di non farcela a riscattare tutti i crediti, del contratto da precario in scadenza, di non poter più pagare l’affitto e dover tornare dai miei, di non trovare un vero lavoro dopo la laurea, della crisi mondiale e dell’aumento delle bollette. Campo a testa china e tiro avanti sperando che domani sia migliore. Ma se mi dicono che domani non c’è più, l’hanno tagliato nella finanziaria, allora basta. Non mi spaventa più Berlusconi che dice di voler mandare la polizia. Non mi spaventa nulla, sono stufo. E finalmente, respiro"

(…)

Quando i telegiornali della sera hanno diffuso il diktat poliziesco di Berlusconi, i ragazzi più grandi hanno brindato con birre e applausi, fra gli sguardi perplessi e intimoriti delle matricole. Che c’è da festeggiare se il premier minaccia manganellate? "Il fatto è che gli stiamo mettendo paura, noi a loro. È la reazione scomposta di uno che si sente debole, che non si aspettava tutto questo, non ha una strategia e pensa di risolvere al solito modo, con la polizia, come si trattasse di rifiuti, camorra o periferie insicure".

(…)

"La mia vita attuale è questa. Studio come un pazzo per finire in fretta e bene, lavoro in un call center, dormo in una camera a 500 euro al mese. E sopporto pure che un Padoa- Schioppa o un Brunetta o una Gelmini mi diano del bamboccione o del fannullone. Ma non che taglino i fondi all’università per fare affari con l’Alitalia, aiutare la Fiat o le banche dei loro amici. La crisi io non la pago. Questa settimana di proteste è stata la più bella esperienza di questi anni. Si respira, si parla, si discute dei sogni, del futuro. Penso sia un mio diritto. Ai vostri tempi era magari diverso. I corsi universitari duravano mesi, avevi sempre gli stessi compagni, gli stessi professori. In ufficio o in fabbrica eri solidale con l’altro operaio o impiegato. Ora io seguo decine di corsi dove non incontro mai le stesse persone e poi lavoro in un call center dove il mio vicino di scrivania cambia sempre, a ogni turno, senza contare che abbiamo tutti le cuffie e non c’è neppure la pausa caffè. In questi giorni ho alzato la testa, mi sono guardato intorno, ho conosciuto studenti da tutta Italia, mi sento vivo".

(…)

"Negli Stati Uniti, il paese più malato di iper capitalismo, l’università pubblica rimane ancora fortissima. Uno studente di Fisica può scegliere di pagare quattromila dollari a Berkeley o quarantamila a Stanford, ma la qualità è la stessa, alla fine si spartiscono lo stesso numero di premi Nobel. Per non parlare dell’Europa. Qui invece fra pochi anni l’istruzione pubblica, di questo passo, sarà relegata alla marginalità, alla serie B, a quelli che non possono permettersi di meglio. Il tema è enorme, tocca l’essenza dei diritti di cittadinanza, ma temo che non passerà. Criminalizzeranno la protesta, faranno scoppiare qualche incidente, e i media andranno dietro l’onda, l’altra, quella del potere. Bisognerebbe bucare questo muro di conformismo, ma come?"

Il resto è qui.

incazzare

Questo sarebbe un periodo di progetti. Dovrebbe essere un periodo felice, carico di quell’ansia mista a eccitazione che precede tutti i grandi cambiamenti, le tappe o l’inizio di una strada, nuova, ma a cui si è pensato tanto.

Ma è difficile fare progetti quando ti dicono che c’è crisi
         c’è recessione
                                   non c’è lavoro
                                                            l’università pubblica la stanno buttando nel cesso
                                                                                 l’economia si è fermata
          le case costano tanto, anche se nessuno le compra

Dovrebbe essere un periodo felice e invece è un periodo incazzato.
Perché ogni giorno si sente parlare di numeri a sette otto dieci cifre.
Che per chi ha fame non ci sono mai
         per chi ne ha fatti tanti, in tutti i mondi, ce ne sono ancora
         per chi sta cercando di crearsi una cultura vengono tolti
         per chi non vuole rinunciare ai privilegi si tirano fuori

Questo mi fa molto incazzare, anche se dovrei essere felice. Molto, molto incazzare