Then I’d lie in my bed once again

James Connolly fu un sindacalista socialista cattolico e femminista irlandese, assassinato dall’esercito britannico dopo la Rivolta di Pasqua del 1916. A lui è dedicata una bellissima canzone, scritta dal poeta Patrick Galvin e interpretata negli anni anche dal cantautore Christy Moore.

La versione che preferisco di questa grande canzone è quella della The Black Family, uno di quei clan musicali che in Irlanda ancora esistono e portano avanti la grande cultura della musica folk dell’isola. La loro versione del brano è per la prima metà completamente a cappella, con la voce limpidissima di Mary Black che decanta le doti e le gesta di Connolly. Quando poi il testo si fa più cupo e viene descritta la sconfitta, poi la reclusione e infine la morte del rivoluzionario allora si uniscono le voci del resto della famiglia e aumenta il carico di pathos.

La canzone dedicata a Connolly venne inclusa nel primo album della Black Family, pubblicato nel 1986. È un album secondo me stupendo, che alterna con sapienza brani totalmente tradizionali (Donkey riding, Colcannon) a interpretazioni di brani altrui. Sul retro del disco viene descritta la scelta dietro a ogni canzone, come se fossimo di fronte a un vero canzoniere familiare.

Uno dei brani più riusciti della raccolta è la cover di Tomorrow is a long time di Bob Dylan. È una bellissima canzone d’amore, struggente e disperata, scritta da Dylan intorno al 1962. Pur essendo molto amata dai fan non è mai stata incisa in alcun album in studio (ok, c’è un demo del 1962 pubblicato nel 2010) e la versione nota ai dylaniati è quella – registrata dal vivo – inclusa nel secondo volume del Greatest Hits di Dylan del 1971.

La fama della canzone deriva però soprattutto dalla cover che ne fece Elvis Presley nel 1966, trasformandola in un pezzo quasi calypso che all’epoca sicuramente funzionava molto bene ma oggi mi sembra dimostrare tutti gli anni che ha. All’epoca comunque Dylan apprezzò tantissimo la cover, definendola la miglior cover di un suo pezzo che qualcuno avesse mai fatto. Forse non è un caso se di lì a poco si sarebbe messo lui stesso a cantare come un crooner per un po’.

Pochi anni dopo la versione di Elvis, nel 1971, fu la volta di Sandy Denny che ne registrò una propria versione acustica, più simile nell’arrangiamento all’originale di Dylan ma con una parte vocale più “educata” che andava a far propri una serie di accorgimenti di Elvis. La versione di Sandy Denny fu quindi ripresa a sua volta da Dylan nel tour di Street Legal e suonata anche durante i concerti di Tokyo che furono l’origine delle registrazioni di “Bob Dylan at Budokan“, in uno di quei giri che fanno le canzoni a volte. Un po’ come All along the watchtower, che Dylan scrisse e Hendrix riarrangiò in un modo che Dylan stesso considerò da allora come definitivo.

Bob Dylan at Budokan è un disco strano, forse la testimonianza del più grande cedimento di Dylan alla propria possibile condizione di pop star e dinosauro. La tracklist dell’album è una specie di Greatest Hits dylanesco fino a quel momento, gli arrangiamenti sono leggeri e curati con addirittura degli inserti reggae (!), il cantato è anarchico ma sostenuto dalle coriste che mantengono la barra sulla linea melodica. Insomma, è un disco di Dylan perfetto per i neofiti e odiato da chi lo conosce a menadito.

Sulla scia delle riedizioni di tanto materiale di Dylan che stanno venendo pubblicate negli ultimi anni è uscito in questi giorni un box set con la versione completa di tutti i brani suonati al Budokan in quei giorni del 1978, inclusa Tomorrow is a long time. Possiamo così chiudere il cerchio e ascoltare Dylan interpretare il proprio brano prendendo spunto dalle cover del brano stesso, così come avrebbero fatto cantanti e band come la Black Family negli anni successivi.

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