Tonight’s that night

Il 1973 fu un anno terribile per Neil Young. La morte del compagno di band Danny Whitten e del roadie e amico Bruce Berry, entrambi per overdose, lo mandò in crisi profonda e lo portò a mettere in discussione il proprio ruolo come rockstar, compositore e artista live. Reduce dal successo di Harvest e dal relativo imbarazzo portò sul palco uno spettacolo sgangherato e ubriaco che sarebbe stato poi testimoniato nel live, stupendo e terribile, “Time fades away“. Paradossalmente poi se l’umore di Young era sotto ai tacchi la sua produttività era alle stelle e in quei giorni scrisse molte delle canzoni che l’avrebbero fatto entrare nell’olimpo del rock.

Tonight’s the night è l’album più emblematico di quel periodo. Suonato interamente dal vivo nel corso di un tour negli USA, venne poi registrato in studio e accantonato ma – dietro suggerimento di Rock Danko della Band – alla fine fu pubblicato nel 1975 al posto del prescelto Homegrown (che rimase inedito fino a pochi anni or sono).

Le serate del tour di Tonight’s the night furono dei veri riti collettivi, durante i quali Young si trovava a cantare brani estremamente personali e per difendersi si calava dietro a una maschera, arrivando a volte a insultare il pubblico e più spesso a prodursi in lunghi monologhi. I brani talvolta venivano stravolti o dilatati, in base al mood della serata, approfittando di una band ormai incredibilmente coesa.

Quanto ho scritto finora era per lo più noto, almeno ai fan di Young. Quello che fino a oggi non sapevo era che in una delle serate di quel tour, il 20 novembre 1973 a Chicago, Neil Young e i Santa Monica Flyers suonarono una versione di Tonight’s the night (la canzone, intendo) di quasi 35 minuti.

Di quella monumentale versione esiste una registrazione, oscena a livello di qualità audio, che è stata raccontata su Reclinernotes.com con un post che è una vera radiocronaca. Minuto per minuto vengono descritti i singoli passaggi di questa lunga versione distorta e acida, compresi i rimandi ad altri brani di Young o delle band dell’epoca.

La performance a questo punto è solo un pretesto, dato che è più quello che si intuisce di quello che si può davvero ascoltare. Quello che conta è sapere che c’è stata, questa versione incredibilmente distesa di un brano che già in partenza è ripetitivo e ossessivo. C’è stata, possiamo in qualche modo ascoltarla e percepire quale momento di catarsi totale fosse per i musicisti sul palco e per il pubblico in sala. E dal punto di vista giornalistico è incredibile la profondità dell’analisi di Reclinernotes, davvero un atto d’amore nei confronti di Young e del suo repertorio. Una coppia, la canzone e il suo racconto, inscindibile e quasi commovente.

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