TANGK

Parto da una domanda: qual è il ruolo dei maschi nel rock degli anni venti?
Il modello della rockstar degli anni sessanta-settanta ormai è improponibile. Gli eccessi, le groupies, la distruzione e l’autodistruzione erano il modo per essere di rottura sessant’anni fa ma ora sarebbero un vezzo nostalgico. La rockstar impegnata è invece un modello in crisi perché funziona bene quando si riescono a riempire gli stadi ma gli stadi ormai li riempiono in pochi in ambito rock e quei pochi hanno più di sessant’anni (sì, anche Eddie Vedder, da quest’anno).

La fortuna è che nel vuoto lasciato dai modelli consumati e prosciugati si è formato lo spazio per un nuovo modello di maschio nel rock, di cui possiamo vedere un esempio negli Idles e nella figura di Joe Talbot.

Gli Idles suonano forte, danno tutto sul palco, ma nel farlo cercano di evitare i cliché virilizzanti del rock e ci riescono. Ne parlano nei propri testi, così come parlano della brexit o del re (con toni poco lusinghieri) o dei tabloid britannici. Talbot ringhia e si agita come se cantasse di distruggere il mondo e invece canta di comunità, di quanto la paternità sia sconvolgente, dell’importanza di mostrarsi vulnerabili. E lo fa con una “stage credibility” che gli permette di non perdere un grammo di autorevolezza, memore della lezione delle band di punk hardcore dagli anni ottanta in poi. In una recente intervista al Guardian il giornalista Jim Farber lo sottolinea bene: “È dai primi lavori di Henry Rollins che non si vedeva una band usare i suoni e un’immagine iper-mascolini come un modo per fare pressione contro queste stesse cose”

Il migliore esempio di questo processo secondo me è un video degli Idles sul palco, a Glastonbury nel 2019. Stanno suonando “Danny Nedelko”, una canzone dedicata a un amico della band, emigrato nel Regno Unito dall’Ucraina. “He’s made of blood, he’s made of bones, (…) he’s made of you, he’s made of me, unity!” cantano gli Idles e il pubblico si unisce al coro. La gente sotto al palco si scatena. A metà canzone il chitarrista Mark Bowen si getta tra il pubblico, che lo accoglie con uno stage diving da manuale. Il batterista suona con una mano sola e con l’altra riprende la scena. Joe Talbot invece sta al centro del palco, fissa la folla, muto. Forse si è reso conto in quel momento che il pubblico è tutto con loro, non sta solo prendendo parte alla catarsi collettiva del rock ma è anche partecipe del messaggio, del bisogno di tolleranza e di accoglienza. È a quel punto che Talbot si rompe. Non ce la fa ad andare avanti, ha gli occhi lucidi, piange. Dopo pochi secondi arriva da dietro le quinte sua moglie, con la figlia nel marsupio. Raggiunge Talbot, gli prende la testa fra le mani, lo bacia, gli parla. Lo “riporta in qua”, in pratica. Poi esce dal palco, rapidamente, e lo show continua.

La moglie di Talbot non è parte della band e non dico che questo rivoluzionerà il ruolo delle donne nel rock, è un piccolo gesto, però c’è qualcosa di molto potente che accade in quei secondi e mi commuove ogni volta che lo vedo. Per il modo in cui si guardano e si relazionano, per la sicurezza con cui lei sale sul palco appena capisce che lui è in difficoltà e sa che non sta rompendo qualcosa, non ci sarà nessun membro del gruppo che la guarderà storta, non è fuori posto insomma. Per il modo in cui lui reagisce, senza fingere una sicurezza che non ha. Esprimere le proprie emozioni a costo di rimanerne schiacciato, e accettare aiuto, non è una cosa ovvia sul palco di una rock band di soli uomini sudati, in mutande e con i chitarroni. A me sembra una cosa piccola ma anche grande.

I pezzi dei primi album degli Idles sono spesso sullo stile di Danny Nedelko: canzoni da cantare in coro ai festival, con una ritmica martellante e una parte vocale che alterna sezioni urlate e altre declamate. Con il tempo però la band si è evoluta, mettendo sul piatto una serie di sfumature musicali sorprendenti; il culmine di questa ricerca musicale è, per ora, TANGK. Un album molto ricco di sfumature, che alterna con sapienza brani lenti e atmosferici ad altri tirati e nervosi, i quali risaltano proprio per il fatto di essere giustapposti a canzoni più riflessive e melodiche. Tutte le canzoni però, sia quelle da ballare che quelle da salotto, hanno una cura maniacale per i suoni e le atmosfere. Merito anche, ma non solo, della co-produzione di Nigel Godrich, chiamato dalla band proprio per aiutarli nelle fasi di realizzazione di un suono che avevano in mente ma non sapevano come tradurre in musica.

I testi sono ancora una volta ottimisti, pieni di amore (tranne che nei confronti del re) e di appelli a una unità fisica, oltre che sociale e politica. Il centro del disco è forse Dancer, un inno al potere della danza e della relazione umana, con i cori degli LCD soundsystem a punteggiare un ritornello semplice e d’effetto.

La cura dei suoni e l’evoluzione della vocalità di Talbot sono tali da riportare alla mente echi di musiche molto eterogenee: il riff di basso e chitarra di Dancer è quasi stoner, il cantato di Jungle mi ricorda molto Dave Matthews, la conclusiva Monolith sembra un brano degli Alt-J del primo disco (quello bello).

Non sono tutti d’accordo con me, va detto. Anzi, il mio entusiasmo per il disco potrebbe essere influenzato dal fatto che a quanto pare sono perfettamente in target. Mi sono trovato a ridimensionare le mie considerazioni quando ho letto questa recensione su Rateyourmusic:

I used to like IDLES. A few years ago, when I was more politically unaware, they were one of my favourite groups. JOY was one of my favourites for a while.

But then I realised something – this band doesn’t actually stand for anything. I mean, they act like they have political beliefs, but the beliefs in question are “let’s all just love each other” while barely actually having anything political to say. It’s like a protest record made by Ringo starr and fucking Elmo.

Bland and boring. I forgot about it the second it was over. The centrist dads will love this though, wildly singing along while drinking Brewdog, wearing a beanie and going to Rejoin EU marches”

Non concordo con il recensore. Trovo che l’esistenza stessa degli Idles, il loro portare sul palco una musica che usa i mezzi del rock, il coinvolgimento del pubblico e dell’ascoltatore e contemporaneamente porti in scena la fragilità dell’uomo (nella fattispecie del maschio) contemporaneo sia già di per sé politica. Ammetto però che sono un papà, mi piacciono le birre artigianali, indosso una berretta quando esco in inverno e non sono un fan della Brexit, quindi ecco, forse è meglio se non vi fidate troppo di me. Sia a livello di critica che di pubblico le reazioni a Tangk sono state generalmente meno entusiaste della mia e piuttosto polarizzate. Molti recensori e ascoltatori lo vedono come un lavoro incompleto, troppo sperimentale, di transizione mentre alcuni fan della prima ora sono delusi dalla nuova direzione sonora o lamentano una generale mancanza di idee. Io come avrete capito mi muovo nella direzione opposta e credo che Tangk sia un’opera ben coesa, però mi piaceva l’idea di lasciarvi influenzare da entrambi i punti di vista, saprete poi trovare il vostro. Di certo è un album che segna un travaso di pubblico per la band, perderanno per strada qualcuno e qualcun altro lo troveranno. Se li avete già ascoltati in passato è il momento di riprovarci, potrebbe essere un album scritto per voi.

Ci sarebbe molto altro da raccontare su Tangk: il neologismo Freudenfreude, il track-by-track su Kerrang, il set a Studio Brussel Live che dimostra che anche le canzoni nuove possono essere portate sul palco e spaccare, il clamoroso lavoro di marketing con tanto di temporary shop e otto edizioni limitate in LP (e una su musicassetta!). Chiudo però qui e vi lascio con un link.

Il link è quello del video di Grace, per il quale gli Idles hanno avuto l’idea di ri-fare il video di Yellow dei Coldplay, facendo però cantare a Chris Martin – con l’uso dell’AI – per l’appunto il brano Grace degli Idles. Per farlo hanno stato chiamato Chris Martin a fare training all’AI e rendere il risultato più credibile. Martin – che sappiamo essere un pagliaccio – si è prestato volentieri all’operazione e ne è uscito un video straniante. Dopo averlo visto mi sono reso conto che in effetti Grace, la canzone, non è distante dalle melodie e perfino dal modo di cantare dei primi Coldplay. Perché non lo pensavo prima di vedere il video? Possibile che basti un accostamento fatto una volta a cambiare una percezione estetica? Mi sono sentito abbastanza spaesato.

È probabile che questa sensazione di spaesamento fosse esattamente quello che gli Idles cercavano di ottenere. Lo spiega Talbot stesso nella conclusione dell’intervista al Guardian: “Gratitudine significa comprendere il proprio privilegio e ripagarlo con del duro lavoro. Ma, per noi, lavorare duro non significa scrivere la stessa roba tutti i giorni. Significa trasgredire, mettersi a disagio a livello creativo per creare qualcosa che è, si spera, ancora più eccezionale”

Insomma, di carne al fuoco in Tangk ce n’è parecchia. Il mio consiglio è di ascoltarlo più di qualche volta, poi lasciarlo da parte a decantare. Riascoltandolo dopo qualche giorno vi ritroverete a canticchiare le melodie, che hanno lavorato sottopelle, ed è quello che succede con i grandi dischi.

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