Inside your computer

Nel 1998 avevo quattordici anni e il mio computer faceva schifo. Tutti i miei computer personali hanno fatto schifo, storicamente, rispetto a quelli degli amici. A casa arrivavano i PC di seconda mano che mio zio dismetteva in azienda, ero sempre una o due generazioni indietro rispetto agli altri.

Da un lato questo essere indietro mi costringeva ad andare a casa degli altri per giocare ai videogiochi o per usare programmi più fighi, dall’altro mi obbligava alla piacevole esplorazione di ogni anfratto delle possibilità del mio computer. Volevo sapere come funzionasse dentro, come programmarlo, perché le cose che ci potevo fare non mi bastavano.

A casa dei miei nonni, dove abitava anche mio zio, c’era un computer più figo. Lo zio giustamente i computer nuovi se li comprava, per cui il suo PC era sempre non dico il top delle possibilità del periodo ma era comunque molto più figo e nuovo del mio. Manco a dirlo, quando andavo dai nonni a quell’età stavo sempre attaccato al computer.

Alcuni suoi colleghi generosi gli masterizzavano (penso con strumenti aziendali e a caro prezzo) software di ogni tipo, quei CD zeppi di installer che giravano negli anni novanta. Fu così che mi trovai con un PC con Windows 98 con installato Microsoft Plus e Visual Basic 4 (poi, più avanti, anche il 5).

Mi divertivo allora con Visual Basic a creare dei semplici programmini, delle finestrelle che facessero semplici cose. Lo zio mi aveva procurato anche un manuale – anche se ricordo che non riuscii ad arrivare oltre il capitolo degli Array perché non riuscivo proprio a capirli. Ci passavo le mattinate d’estate, su Visual Basic.

Lo sfondo del PC era rigorosamente “Inside your computer”, il più figo dei temi di Microsoft Plus

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Lo sfondo era per allora veramente un tripudio di colori. Fra l’altro lo state sicuramente guardando in un monitor enormemente più definito di quello che usavo allora.

Usando il Registratore Sonoro di windows avevo poi fatto degli esperimenti con l’audio. Avevo rippato (ma all’epoca non si diceva ancora rippare) alcuni brevi brani audio dai CD che avevo e approfittando delle funzionalità di windows avevo inserito alcuni suoni personalizzati associati agli eventi di sistema. La musichetta d’avvio era – e fu per lungo tempo – i primi dieci secondi di introduzione di pianoforte di The turn of a friendly card dell’Alan Parsons Project, opportunamente sfumati sul finale.

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Erano mattine e pomeriggi felici, un po’ come tutti quelli che ricordo dei miei 10-15 anni.

Oggi stavo lavorando – in smart working da un appartamento in montagna – quando all’improvviso dalle casse del PC è partita “The turn of a friendly card”. È stata una Madeleine de Proust micidiale. Mi sono reso conto di star facendo esattamente quello che stavo facendo 23 anni fa, ovvero divertirmi a spiegare a una macchina che cosa fare usando le più recenti tecnologie a disposizione. Allora insegnavo a un PC con Windows come aprire e chiudere finestre e mostrare messaggi, oggi con Kotlin, Android Studio e un MacBook sviluppo app destinate a finire in mano a persone – magari nemmeno nate nel 1995 – attraverso il loro smartphone.

C’è qualcosa di infantile nel fare il mestiere che si sognava da bambini? In parte probabilmente sì, credo però che sia anche un vantaggio tattico. So di avere molte possibilità, che potrei fare anche altri lavori e occuparmi di altre cose, però so che programmare mi entusiasma quindi perché non farlo come lavoro, se c’è qualcuno disposto a pagarmi per farlo? Sono convinto che l’entusiasmo infantile che provo quando riesco a far funzionare qualcosa, a scoprire qualcosa di nuovo, a unire dei pezzi e incastrarli nel modo giusto sia esattamente quello che ci vuole per fare al meglio questo lavoro, così tecnico ma anche così creativo.

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