Who was dragged down by the mix

La copertina di Animals dei Pink Floyd ci mostra una Battersea Power Station scura, ricoperta da una patina di grasso e smog. Fuori dall’inquadratura batte un potente, spietato sole al tramonto che non riesce a illuminare il cielo, verdognolo come in certi quadri di De Chirico. L’album, come è noto, trae ispirazione dalla Fattoria degli animali di George Orwell ma vedendo la copertina è facile immaginare la Battersea come la sede del Ministerò della verità di 1984. Un simbolo distopico.

La musica contenuta nel disco è, anche lei, verde e marrone. Scura, ricoperta da una patina di pece. La batteria è smorzata, si sentono quasi solo cassa e rullante, i piatti quando sono udibili suonano in lontananza e decadono in fretta. I tom suonano come se ci fossero degli stracci sopra. Il basso è magmatico quando suona le note più gravi mentre torna in evidenza negli interventi delle note più acute, insieme alla chitarra. Le tastiere sono anch’esse sommerse nel mix, a parte la grande eccezione dell’introduzione di Sheep.

Per anni Animals è stato così, un disco scuro e difficile da rimestare. Per anni noi fan abbiamo pensato che suonasse così proprio per aiutarci a entrare nell’atmosfera dell’album, che fosse un suono volutamente sporco.

Invece, intervista dopo intervista, abbiamo scoperto che non era così. I Pink Floyd a metà anni settanta avevano investito parte dei propri enormi incassi del post-DarkSide nell’acquisto degli studi di registrazione Britannia Row e, essendone proprietari, li avevano voluti usare per registrare Animals. Peccato che gli studi non fossero ancora pronti, i macchinari non fossero all’ultimo grido e i tecnici non fossero formati per usarli al meglio. In più gli studi avevano bisogno di un restauro e questo distrasse non poco i PF. Per usare le parole di Mason “Ricordo come gettammo il cemento per il pavimento dello studio ma non come registrammo ‘sheep'”.
Uno a uno i Pink Floyd si sono detti a più riprese scontenti del suono di Animals e hanno imputato ai motivi di cui sopra la resa sonora non ottimale del disco, che ai loro orecchi sarebbe dovuto essere limpido quanto Wish you were here o Dark side of the moon. Almeno così dicono, chissà se all’epoca davvero la pensassero così. Ovviamente in seguito a queste interviste si è fatta sempre più insistente tra i fan la richiesta di un remix, per farci sentire l’album così come “sarebbe dovuto essere”.

Finalmente ieri – dopo anni di rinvii e veti incrociati – l’attesissimo remix è stato pubblicato. Il remix è stato curato da James Guthrie, membro dell’entourage dei PF dal 1978, ed è un lavoro fatto tecnicamente benissimo. Tornano nel mix i piatti della batteria, il basso si fa più presente, in generale il suono ha più punta ed è disposto meglio nell’intera gamma dinamica. Pigs non è mai suonata così aggressiva, Dogs sembra a tratti una sorella di Echoes grazie al lavoro di Mason sul “ride” molto più evidente. Tutto il lavoro è stato fatto, mi pare, senza prendere alcuna alternate-take strumentale o vocale. Il disco è esattamente quello che abbiano sempre conosciuto, cambiano solo (e non è poco) i rapporti e le equalizzazioni tra gli strumenti e le voci.

La versione remixata dell’album è stata pubblicata a parte, con una nuova copertina che ritrae ancora la Battersea Power Station ma stavolta avvolta dalle gru e dalle fotoelettriche durante i lavori di ristrutturazione degli anni 2010, che la porteranno a breve a diventare un polo di appartamenti e coworking di lusso. Un destino paradossale per l’icona che campeggia sulla copertina di un album che fa del capitalismo senza scrupoli uno dei propri bersagli principali.

Si apre a questo punto una questione: i PF crearono un disco dal suono verde-marrone, come la copertina, fangoso e cupo, e per anni ci siamo convinti che fosse così perché lo avevano voluto mixare in quella maniera. Dalle interviste successive abbiamo scoperto che così non era, e ora abbiamo una versione luccicante e nitida (come la copertina, di nuovo). Non c’è evidentemente una versione giusta e una sbagliata, dato che l’orginale ha dalla propria la “credibilità” degli anni, il gradimento di chi ha apprezzato quel suono cupo, l’abitudine, mentre il nuovo remix è più nelle corde di molti fan che ne apprezzano la vicinanza alle atmosfere floydiane di Meddle e Dark Side. Ed è pure più apprezzata dalla band che la considera più vicina a quello che avrebbero voluto far uscire all’epoca. Come gestire questa ambiguità?

Forse la cosa migliore è considerarli due dischi diversi, a maggior ragione dato che hanno avuto il buon gusto di pubblicarlo con una nuova cover e un titolo che esplicita il remix (cosa che ad esempio i Genesis non hanno fatto). Una scelta rispettabile che ci mette nella invidiabile situazione di poter ascoltare entrambe le versioni.

Personalmente a chi volesse approcciare l’album continuerò a consigliare la versione originale, magari nell’ottimo remaster del 2016, mentre quando dovessi fare una playlist di pezzi dei PF probabilmente andrò a pescare dal remix.

Se volete cimentarvi nel confronto ecco una playlist con la versione originale e quella remixata. Fatela partire in shuffle e via!

0

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.