Any colour you like

Me lo ricordo, il giorno in cui ascoltai per la prima volta The dark side of the moon.

Era il 1997, credo. Avevamo già traslocato quindi avevo più di 11 anni, però non ero ancora alle superiori. Anzi, non ero nemmeno in terza media perché a quel tempo avevo già una compagnia di amici che dei Pink Floyd avevano quasi tutti i CD. Dev’essere stato quindi il 1996 o il 1997.

Era estate, ero a casa e in giardino mio padre e mia madre parlavano con Romano, lo zio della mia vicina di casa Stefania. Romano era un gioviale e ciarliero signore emiliano, di Carpi di Modena, che in gioventù aveva conosciuto personalmente i Nomadi e a quanto capivo ci aveva anche suonato insieme. A Romano la musica piaceva parecchio, soprattutto la musica della sua gioventù, e rimanevamo spesso a parlarne da una parte all’altra della rete che divideva la nostra casa da quella di Stefania e la sua famiglia.

Quel giorno Romano parlava con i miei genitori e, ad un certo punto, mia madre entrò in casa con due dischi. Erano due LP che Romano le aveva prestato, apposta perché potessi ascoltarli io. Quei due LP erano The dark side of the moon e Wish you were here.

La mia conoscenza dei Pink Floyd fino ad allora era stata frammentaria. Conoscevo The Division Bell, Atom Heart Mother, A collection of great dance songs e basta. Avevo anche la cassetta del disco in studio di Ummagumma ma, sinceramente, non la ascoltavo mai. Quei due LP furono quindi il mio primo contatto con i Pink Floyd più famosi e classici, quelli del periodo ’72-’79 che tutti conoscevano… tranne me.

Ovviamente di Dark Side e Wish you were here avevo sentito parlare. Erano due album storici di cui avevo letto sui giornali, ne sentito riferire da parenti e appassionati.

A colpirmi inizialmente fu soprattutto Dark Side. Quel prisma in copertina ha un innegabile fascino sinistro nel suo essere allo stesso tempo una maschera e una rivelazione. Quando aprii il gatefold, scoprendo che quell’arcobaleno diventava poi all’interno un battito intorno al quale si stagliavano i testi dei brani, mi sciolsi in adorazione. Anche il triangolo sull’etichetta del disco mi colpì molto, un’idea semplice e geniale per rendere anche il rito del “mettere su il disco” un piccolo rito psichedelico.

In quel periodo tenevamo il giradischi in un angolo del salotto, dove era stato un po’ relegato dopo il trasloco, tra le scale e il mobile a vetrinetta. Mi sedevo sul divano e guardavo il disco girare mentre la musica usciva dalle casse dello stereo, piazzato in maniera un po’ naif sopra al mobile. La musica inondava la stanza e la mia mente in quel pomeriggio di fine estate.

Lo ricordo così, il primo ascolto di Dark Side. Un ascolto dedicato, attento, dall’LP originale del 1973 di Romano. E ricordo che mi piacque ma non mi fece impazzire quanto avrei pensato. Forse ero abituato a dei Pink Floyd più “spacey”, senza saperlo, o forse chissà che, ma ricordo che verso la fine mi stupii di non essere così preso quanto immaginavo che sarei stato.

Le cose andarono diversamente con Wish you were here: conoscevo già Shine on you crazy diamond da A collection of great dance songs ma non immaginavo che ce ne potesse essere anche una seconda parte, altrettanto lunga e altrettanto bella. Conoscevo Wish you were here, la canzone, che si sentiva pure in radio, ma furono Welcome to the machine e Have a cigar a colpirmi di più. Diverse, diversissime dai brani dei Floyd che conoscevo già, oscure e inquietanti eppure così rock e così potenti.

Per mesi ascoltai entrambi gli album con passione e amore, prima di restituire i dischi a Romano. Dark Side mi piaceva sempre di più ma quando al mattino scendevo dalle scale per andare a fare colazione, prima di andare a scuola, spegnevo la radio con il Giornale Radio delle 7.00 ed era Wish you were here il disco che mettevo su, per avere poi in testa quelle note per tutto il giorno.

Con il passare del tempo Dark Side prese il sopravvento. Un po’ perché tutti lo amavano alla follia, critici inclusi (mi pareva allora) e mi convinsi che dovesse giocoforza essere il capolavoro dei Pink Floyd, un po’ anche perché si trattava di un album ricco di aneddoti, di piccole chicche: dall’apporto di Alan Parsons all’improvvisazione di Clare Torry, dalle registrazioni di Roger “The Hat” Manifold, Chris Adamson e Gerry O’Driscoll che si sentono qui e lì a quel “There is no dark side of the moon really, in fact it is all dark” che percepii solo dopo molti ascolti. Dark Side era un disco esoterico e accessibile al tempo stesso, quindi perfetto per un pre-adolescente.

All’epoca era uscita da poco, per il ventennale del disco, la riedizione con la copertina con il prisma pieno. Per il mio compleanno dell’anno successivo convinsi i miei a regalarmene una copia e approfittammo di una visita dentistica (penso) a Verona per andare in un negozio vicino a Piazza Bra e comprare il CD, dato che nel frattempo avevamo ottenuto un lettore CD in lungo prestito da mio zio. Ancora oggi la copertina di Dark Side che preferisco è quella lì, con il prisma pieno.

Con gli anni il mio rapporto con Dark Side si è evoluto, è cambiato, così come secondo me è cambiato il rapporto di Dark Side con la realtà degli ascoltatori. Nato come album analogico, registrato nel 1972, è così perfetto e nitido da essere il disco perfetto da ascoltare anche in CD. Con le sue canzoni non-troppo-lunghe-ma-non-troppo-corte, un mix raramente frequentato dai Pink Floyd, è anche perfetto per le cassette e le playlist.

Pochi anni dopo aver ascoltato per la prima volta DSOTM iniziai a frequentare newsgroup e mailing list, scoprendo così come ci fosse una nutrita schiera di detrattori di quello che continuavo a considerare un disco tutto sommato perfetto. Amanti dei PF della prima fase che non amavano la loro svolta da “stadium rock”, altri che odiavano soprattutto cori e coriste, altri ancora che inorridivano all’udire il sax di Us & Them e Money. Questo nuovo approccio mi spiazzò e mi interrogò non poco, portandomi ad avere un rapporto dialettico con l’album che dura tutt’oggi. Sono convinto che Dark Side sia più penalizzato che valorizzato dall’inserimento delle coriste e del sax di Dick Parry? Onestamente sì. Non sono però convinto che cori e sax siano negativi di per sé, soprattutto in un album come questo che ha momenti un po’ avventurosi ma soprattutto una maggioranza di passaggi lisci, accessibili, mi sembra che siano proprio quelle parti di sax e quell‘uso dei cori ad avere un po’ rovinato i brani, o almeno ad averli limitati. Soprattutto nella seconda parte dell’album e sul finale, quel dittico Brain Damage / Eclipse che oggi trovo abbastanza pesante e – lo dico? – noioso.

In questa fase della mia vita mi trovo ad amare soprattutto il brano più nascosto del disco, Any colour you like. Una breve parte strumentale che unisce due brani eppure è così piena dello spirito che era stato dei PF ante-dark-side e che sarebbe apparso solamente a tratti negli anni successivi. Non per niente dal vivo diventava qualcosa di diverso, penso ad esempio alla bellissima versione di otto minuti contenuta nel concerto di Wembley del 1974 pubblicata nel box “Immersion edition” di DSOTM (e poi in vinile, nel 2023, mutilata di due minuti abbondanti per far stare l’intero set in un LP solo)

Ecco, cosa sarebbe Dark Side senza Any colour you like? Probabilmente rimarrebbe un disco da milioni di copie vendute, un evergreen, un bestseller, ma sarebbe molto più scollegato con la storia della band. Colour è uno spioncino, un segnale che ci ricorda che i PF erano stati, soprattutto, anche qualcos’altro. E che Dark Side alla fine è un punto d’arrivo ma anche un album di transizione tra due band composte dalle stesse persone ma molto diverse tra loro.

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