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A fine novembre è uscito il disco italiano dell’anno. Avrei voluto parlarvene subito invece c’era così tanto da dire che ho rimandato di continuo l’occasione e ora eccoci qui, con l’anno quasi finito, a parlarne in extremis.

Il disco in questione è Infinito+1 di Fulminacci e onestamente non mi aspettavo sarebbe stato un album così bello, così completo. “La vita veramente“, il suo esordio discografico del 2019, mi aveva preso tantissimo ma era il risultato di una serie di brani scritti in un periodo piuttosto lungo, una specie di best-of delle canzoni scritte fino a quel momento. “Tante care cose“, il secondo album, mi aveva invece lasciato più freddo perché nonostante le belle canzoni mi era sembrato troppo eterogeneo, un po’ sfilacciato, indeciso tra diversi stili e produzioni.

Infinito+1 riesce invece a sintetizzare una nuova forma del suono di Fulminacci grazie a una scrittura più uniforme e alla produzione affidata per tutti i brani all’amico Giorgio Pesenti.

Anche in questo disco Fulminacci ci propone tre tipi di canzoni: le ballate lente, i pezzi marcatamente pop e i mischioni, che sono il suo marchio di fabbrica dai tempi di “Le ruote, i motori!”, canzoni nelle quali infila e sormonta le idee che sarebbero sufficienti per scrivere due o tre pezzi e formano così delle entusiasmanti mini-avventure musicali di pochi minuti. Il punto di forza di “Infinito+1” è che contiene brani formidabili di tutte e tre le categorie. “Ragù”, “Tutto inutile”, “Spacca” e “Filippo Leroy” sono i mischioni, “Puoi” “Baciami baciami” e “Simile” la quota di pezzi pop, “Così cosà” “Occhi grigi” e “La siepe” le ballate acustiche.

Dal punto di vista testuale “Infinito+1” si rivela invece come un album fortemente incentrato sul tema della autenticità, della distinzione tra originale e imitazione, tra autore e impostore, tra verità e imitazione della stessa.

È un argomento che emerge in modo scherzoso già dal primo brano, “Spacca”: “La vuoi la verità?
Gli assoli di chitarra non li vuole mai nessuno, solamente chi li fa!”
. Una frase innocua che diventa un manifesto programmatico in un disco molto denso che non concede spazi melodici agli strumenti fino alla fine, nella prolungata coda di kazoo de “La siepe”.

In “Ragù” il discorso sull’importanza di essere autentici si fa più esplicito nell’affrontare il classico tema del successo e della possibilità di ricercarlo senza tradire sé stessi. “Devo scrivere una hit che non è una hit / Di quelle che ti vergogni mentre le canti / Che non piacciono a nessuno / Ma le sanno tutti quanti”, canta Fulminacci. Spera implicitamente che quella hit possa essere proprio la canzone stessa oppure ne ha paura? Probabilmente entrambe le cose.

Seguendo questo filone tematico “Filippo Leroy” rappresenta il centro del disco, il momento in cui l’autore si mette a nudo e smaschera la propria ansia: si può essere artisti originali o saremo sempre la copia di qualcuno? È facile vedere in questi interrogativi gli echi delle recensioni che negli anni hanno elencato le influenze molto evidenti di autori come Silvestri o De Gregori nella musica di Fulminacci, obiezioni alle quali non viene data una risposta anzi vengono posti nuovi interrogativi. I dubbi partono già dal titolo della canzone che cita l’attore che interpretò Leonardo Da Vinci in uno sceneggiato RAI del 1971.

Nelle interviste e nei comunicati stampa per l’uscita del disco Fulminacci è stato molto esplicito su questo tema:

Io sono veramente così o sto solo imitando l’idea che ho di me, o il modo in cui qualcun altro mi desidera e mi disegna? E soprattutto, quale di queste opzioni è quella giusta? Nel testo di “Filippo Leroy” non ci sono risposte, ma una continua alternanza tra autocelebrazione e relativismo pessimista.”

“Filippo Leroy parla del fatto che comunque si vive e si lavora per imitazione, da sempre. L’arte nasce spesso come forma d’imitazione. Il testo mi è stato un po’ ispirato dal tema dell’intelligenza artificiale e quindi dal ruolo che avrà l’autore nel futuro. Io interpreto questo artista che si sente “’sto cazzo” e quindi il brano è anche una critica agli artisti che si prendono troppo sul serio, quelli che alle interviste non ironizzano mai. Mi fanno un po’ paura e mi sembrano poco sinceri.”

L’espediente musicale con cui Fulminacci trasmette questo dialogo tra autocelebrazione e relativismo pessimista è quello del coro, un coro femminile che sembra uscito da una canzone degli anni cinquanta e si prende il ruolo di contraltare, andando a demolire le affermazioni dell’io narrante.

E sulla vita che vivo scrivo un romanzo (Oddio che noia)
Manca poco e ti giurò mi fanno santo (Quindi alleluia)
Ma la notte rimane comunque la stessa di sempre (Uh-uh)
Ogni giorno ci penso, ma poi mi rimbocco la mente (Non ci interessa)
Mi lamento dal piano di sotto е nessuno mi sente (Facciamo fеsta)
Potrei essere Lello da Vinci o Filippo Leroy (Chi?)

Se il centro tematico dell’album è “Filippo Leroy”, “Occhi grigi” ne è il centro emotivo. Nata dalla collaborazione tra Fulminacci e Giovanni Truppi, è una canzone che riesce a sottolineare i punti forti dello stile di entrambi. Lo stile di Truppi è molto più diretto di quello di Fulminacci, così anche qui si parla di verità e autenticità ma lo si fa in maniera priva di simbolismi, molto trasparente e per questo ancora più potente.

Occhi grigi, bocca di primavera
Ti prego dimmelo ancora una volta
Quand’è che una cosa è vera
E se è vero che è vera soltanto nell’attimo in cui ti succede
O è appena successa
E poi non è più la stessa

La melodia del ritornello è puramente “truppiana”, con un seguirsi di accordi di pianoforte che vanno sempre in una direzione leggermente diversa da quella più ovvia, e rimane in testa per non andarsene più.

L’altro centro emotivo del disco sta alla fine, un gran finale di quelli che ti lasciano a bocca aperta e ti fanno rimettere l’album dall’inizio. È secondo me la canzone italiana più bella dell’anno e si intitola “La siepe”.

Musicalmente ne “La siepe” c’è molto De Gregori, così come nella scelta delle immagini del testo e nel modo in cui queste immagini vengono messe assieme, fin dall’incipit: “Non ci credo che dietro alla siepe non c’è neanche una spia / Le lucertole sanno parlare di me”. Fulminacci parte da lì e costruisce una canzone sul tema della paranoia, un brano breve eppure ricco di sfumature e di cambi melodici perfettamente incastrati, con un geniale gioco di accenti, anticipi e ritardi sui versi del ritornello che lo rendono contemporaneamente melodico e sghembo.

Poi l’album, prima della coda di kazoo suonata dallo stesso Fulminacci, termina con queste parole

E non importa se non sei vera
Tanto vero alla fine cos’è?
Sei dentro o fuori di me?

Di nuovo la ricerca della verità, di nuovo a chiedersi se credere o non a ciò che si ritiene vero sia in effetti così importante.

Secondo me con questo terzo album Fulminacci ce l’ha fatta a creare qualcosa che segnerà la musica italiana, nel proprio piccolo. La strategia di marketing associata all’album è stata in realtà abbastanza strana: il disco è stato pubblicato a fine novembre e non è potuto entrare negli “wrapped” di fine anno di nessuno, alcuni brani (Ragù, Tutto inutile, Filippo Leroy e Simile) sono stati pubblicati pian piano nei mesi precedenti l’uscita del disco e la produzione su supporto fisico (CD e LP) è prevista per gennaio, il che ha impedito di spingere le vendite di questi prodotti come proposta di regalo natalizio. Vedremo se questa strana politica di promozione porterà risultati, magari trasformando l’album in un cult e salvandolo da una eccessiva esposizione mediatica, o se viceversa finirà per affossarlo e farlo perdere nel grande vortice delle uscite italiane di questa fine 2023. La nostra fortuna è che comunque possiamo ascoltarlo e godercelo, magari ci aiuterà a capire un po’ meglio quand’è che una cosa è vera.

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