I miei dischi significativi del 2018

Qualche mese fa scoprii – con sorpresa – di avere ascoltato pochissima musica del 2018 e quindi chiesi una mano a voi, “popolo della rete”. Ne uscì una lista lunga e variegata di preziosi consigli che è possibile recuperare qui.

Nel giro di un paio di mesi sono riuscito ad ascoltare più o meno tutto quello che mi è stato consigliato. Di alcuni album, lo ammetto, non sono arrivato alla fine ma la maggior parte li ho ascoltati con interesse e molti di essi mi hanno fatto scoprire qualcosa di nuovo, cambiando profondamente l’idea che mi ero fatto del 2018 in musica.

Mi sono divertito a scremare questa lista creando una selezione dei dischi significativi del 2018. Non dico che siano tutti grandi album, non saranno tutti memorabili ma si tratta secondo me di un sottoinsieme di uscite dell’anno passato che vale la pena approfondire. Secondo il mio discutibile gusto naturalmente.

Daniel Blumberg – Minus

Quello di Daniel Blumberg è l’unico disco del 2018 per il quale davvero mi sento di dirvi “ascoltatelo!”. Gli altri sono dischi belli, che possono piacere, che dicono qualcosa, ma se ve li perdete non succederà nulla. Quello di Daniel invece è un disco importante, che esprime un’esigenza sincera, un disco significativo.
La storia dietro a “Minus” è la più banale del mondo: Blumberg è stato lasciato dalla fidanzata storica (che già il fatto che a 29 anni nel 2018 si possa avere una “fidanzata storica” vuol dire qualcosa) e si è gettato sull’espressione artistica suonando spesso e volentieri all’Oto Club di Londra. Lì ha conosciuto diversi musicisti specializzati in improvvisazione che l’hanno aiutato a dare forma alle proprie delusioni e nevrosi. Il risultato è Minus, un album che mescola ballate depressive, svisate psichedeliche e strumenti acustici. Gli arrangiamenti ricordano a tratti l’ultimo Bowie e i dischi migliori dei Black Heart Procession ma è l’urgenza espressiva a fare la differenza. Daniel vuole raccontarci se stesso e lo fa dipingendo con le note così come è abituato a fare sulla tela.

Un brano da ascoltare per farsi un’idea: The bomb live at Jools Holland
Consigliato a: tutti, tranne le persone senza sentimenti.
Dove lo trovo?

Peter Hammill – X/Ten

Breve cronistoria per i 7 miliardi di umani che non seguono la discografia infinita di Peter Hammill:

  • 2016: Peter Hammill fa una serie di date all’Oto Club di Londra. In tale occasione suona cinque pezzi nuovi che pubblica anche in un EP, intitolato V – Five new songs. I pezzi sono tutti eseguiti con chitarra/piano+voce, e sono bellissimi.
  • 2017: Peter Hammill pubblica “From the trees”, un disco prodotto in maniera più estesa con i soliti raddopppi della voce e effetti di tastiera un po’ retro ai quali ci ha purtroppo abituati. From the trees contiene anche i cinque pezzi di V, in versione meglio interpretata ma mediamente peggio arrangiata.
  • 2018: Dopo un tour di parecchie date che ha toccato anche l’Italia PH pubblica “X/Ten”, a chiusura del cerchio precedentemente iniziato. Si tratta di un live che comprende tutti e soli i pezzi di From The Trees, interpretati però nella stessa forma piano/chitarra+voce che aveva reso “V” così speciale. La cosa interessante è che ovviamente anche i 5 brani di V sono nuovamente re-interpretati, stavolta di nuovo con l’arrangiamento originale ma con la profondità data dall’esperienza di un intero tour.

Alla fine dei tre anni abbiamo quindi tre versioni diverse dei cinque pezzi di V: quelle acerbe e con la melodia in evidenza di V, quelle più strutturate di From the trees e quelle scarnificate di X/Ten, che non necessariamente tornano alla stessa essenza degli originali ma a volte arrivano a rivelare un’essenza diversa. Ascoltarle è come seguire uno scultore che parte da un proprio abbozzo, lo ricopre di decorazioni e stucchi e poi lo riprende a martellate e scalpellate per mostrare una nuova scultura abbozzata che mostra alcune tracce della lavorazione precedente.

Per chi non segue quel geniaccio di PH X/Ten è un disco abbastanza inutile. Per chi invece lo ama è invece una delle opere migliori degli ultimi anni perché permette di apprezzare un gruppo di canzoni nuove in una veste essenziale e trasparente che paradossalmente le manterrà più giovani di tanti altri brani del recente passato.

Un brano da ascoltare per farsi un’idea: The Descent
Consigliato a: chi ama la voce drammatica di PH dal vivo e non ha paura dei saliscendi emotivi
Dove lo trovo? Su Spotify

P.S. Per una recensione più caustica ma certamente più azzeccata e meglio scritta – non da me ovviamente – rivolgersi qui.

Pastis e Irene Grandi – Lungoviaggio

Irene Grandi non l’ho mai covèrta, come dicono a Venezia. Mai ascoltata, mai approfondita. Mi sembrava una specie di Vasco Rossi al femminile – con migliori capacità canore naturalmente – e quindi non mi attraeva.

Siamo a metà 2018 quando mi imbatto in un video curioso su Youtube, partendo da un articolo di Rockit. Un video di Irene Grandi insieme a dei tizi che non conoscevo – tali Pastis – e a Vasco.
Nel video Irene Grandi quasi non appare, se non in brevi spezzoni nei quali la si vede su un divano intenta ad ascoltare Vasco mentre parla. Un Vasco umanizzato, de-mitizzato, che intartagliandosi biascica dei concetti pseudo-filosofici molto terra terra. Riparte più volte, si ferma, ricomincia. Alla fine del video, a sorpresa, ti butta lì una citazione di Emanuele Severino (chi?). E il video finisce con Irene, Vasco e i due Pastis riversi sul divano in una specie di Zattera della medusa al contrario.

In sottofondo a questi frammenti di discorsi, anzi “immersa” nei frammenti di discorsi c’è la canzone. Una brano assurdo, una specie di meta-canzone nella quale la voce di Irene Grandi sembra descrivere ciò che vediamo nel video

Benvenuti, ben tornati, ben arrivati. Dopo un lungo viaggio, finalmente qui. Tra briganti e santi noi… Aspettiamo Vasco

Pastis e Irene Grandi – Benvenuti nel vostro viaggio

La cosa più pazzesca di tutto questo è che nonostante la frammentarietà del brano e del video e le frasi di Vasco che arrivano a gamba tesa la canzone mi piace. Rimane in testa, è divertente, è arrangiata benissimo e orecchiabile.

Qualche giorno dopo esce il disco, a nome di Pastis e Irene Grandi. Corro ad ascoltarlo su Spotify per capire di cosa si tratti e rimango di stucco. Il disco è tutto un esperimento nello stile del video con Vasco: una commistione di spezzoni di discorsi, citazioni, frasi rubate che vanno a volte a incastrarsi nelle canzoni e a volte a esserne l’origine.

I brani belli, nel senso di belle canzoni con belle melodie, sono tanti: Tutto è uno, che ruota intorno a un breve estratto di intervista di Tiziano Terzani, Roba bella che prende come spunto le voci di un mercato dell’appennino, I would like to take you on a journey che riprende uno spezzone registrato in orbita da Samantha Cristoforetti. Il brano che però meglio sintetizza il senso del lavoro è Sono ali, una canzone compiuta e incompiuta allo stesso tempo che sembra prendere lo slancio dalle prove di Irene e dei Pastis che cercano di scrivere la melodia del brano stesso.

Si tratta di un esperimento difficile da raccontare a chi non l’ha ascoltato. È un disco che riesce a essere contemporaneamente difficile (son pur sempre brani MOLTO frammentari e spesso privi di una forma riconoscibile come canzone) e facile (ci si trova a canticchiare le canzoni sotto la doccia con estrema facilità), intellettuale e viscerale. Irene Grandi offre una eccellente performance canora, gli arrangiamenti sono curatissimi ed efficaci e sono riusciti pure a infilare un “concept” di base che unisce le canzoni del disco: il viaggio come metafora di cambiamento.

Sembra finire qui, invece no.

Il bello deve ancora arrivare: Lungoviaggio è nato fin dall’inizio non solo come un disco, un tour e una collaborazione ma anche come un Visual Album. Una specie di documentario che riprende tutte le canzoni del disco più o meno nello stesso ordine e una elaborazione artistica visiva per ciascuno. Un video, in pratica, però non il solito video con il cantante che canta in playback e neppure l’altrettanto solito video che racconta una storia. Così come il disco è una miscela di canzone e parole, così il visual album è un ulteriore strato di arti intrecciate. Tutto è uno diventa quindi una splendida sequenza di foto orbitali prese da Google Earth che si alternano alle riprese dello sguardo vivido di Terzani. SOMEWHERE I READ ‘Martin Luther King’ un vero viaggio negli USA degli anni ’60, Sono ali esplicita la propria natura di canzone-in-prova.

Il risultato eccezionale raggiunto da Lungoviaggio è quello di essere un disco pop e un prodotto di ricerca, allo stesso tempo. Si può mettere in sottofondo il disco mentre si lavora ma anche guardarsi il Visual Album come un esempio di videoarte traendone uguale soddisfazione. Non mi sembra un risultato da poco.

Un brano da ascoltare per farsi un’idea: Sono ali
Consigliato a: chi cerca un buon pop ma è stufo della struttura strofa-strofa-ritornello-sfrofa-ritornello
Dove lo trovo? Su Spotify – tranne il primo brano – e in Visual Album integralmente su Youtube

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