Nessuno fece nulla

Era un anno fertile per il grano, come mai in passato: era tutto in abbondanza.
Era un anno fertile per il grano, come mai in passato: era tutto in abbondanza.
Quelli che erano malati cronici e desideravano la morte, consegnarono finalmente con un sorriso l’anima a dio… l’anima a dio… l’anima a dio.

Nei giorni dei grandi temporali il cielo era rosso,
la pioggia portava con sé la polvere dei deserti d’oltremare.
I vecchi dissero: ci sarà la guerra…
i vecchi dissero: ci sarà la guerra.
Nessuno prestò credito alle loro parole e nessuno fece nulla…
NESSUNO FECE NULLA!

Cosa si poteva fare contro la profezia?
Solo cantammo per intere giornate…
cantammo per intere giornate fino a restare senza voce,
per potere consumare tutte le vecchie canzoni,
perché non ne restasse nessuna che venisse sporcata dal tempo…
perché non ne restasse nessuna.

… quando intravedono il primo cadavere per strada le persone voltano la testa,
vomitano e perdono i sensi…
vomitano e perdono i sensi.
Senti il tremore per primo nelle ginocchia,
poi ti manca l’aria e ti gira la testa.
Sono d’aiuto in questi casi l’acqua fredda e leggeri schiaffi.
Se lo svenuto non rinviene sdraiatelo sulla schiena e sollevategli le gambe in aria.
Se il cadavere di quel giorno era un suo parente o comunque un suo vicino, non permettetegli di avvicinarsi e di guardarlo:
le ferite causate dalle granate sono in genere causa di un nuovo svenimento…
le ferite causate dalle granate sono in genere causa di un nuovo svenimento
e non si ha tanto tempo a disposizione, MAI.
Non si ha tanto tempo a disposizione, MAI.

È raccomandabile piangere…
È raccomandabile piangere…
È raccomandabile piangere… fa bene al cuore.
Ma neppure per questo c’è molto tempo.
Non c’è mai molto tempo a disposizione.

Se la città è in stato d’assedio, occorre mandare i più coraggiosi a tentare di portare i sacchi di plastica opachi per i cadaveri.
Se questi non tornano, bisogna avvolgere i morti in lenzuoli bianchi.
Mi raccomando: coprire i morti, o nei sacchi appositi o in lenzuoli bianchi,
non si può seppellirli senza.
Non è raccomandabile seppellirli senza,
fa diffondere il panico…
fa diffondere il panico: la paura della morte diventa facilmente la paura di finire sepolti allo stesso modo,
senza uno straccio bianco, senza un pezzo di plastica nera intorno.

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internouno

Gli anni passano silenziosi e rapidi: ti passano accanto, quasi non li vedi, e poi ti accorgi dei segni che hanno lasciato.

Prove tecniche di sopravvivenza di coppiaUn anno fa iniziava la nostra avventura in questa nuova casa, dalla quale scriviamo e nella quale stiamo scrivendo le nostre vite. Da allora ogni giorno impariamo qualcosa di nuovo sullo stare insieme, sui rapporti umani, su noi stessi. E’ bello vedere questa casa prendere le nostre impronte, vederla portare i segni delle nostre passioni; è bello vedere gli amici che vanno e vengono, si fermano e ripartono. E’ bello anche stare alla finestra a guardare la gente che passa e assaporare quante cose nuove accadano, in ogni istante, fuori e dentro di noi. E’ bello, soprattutto, sentirsi nel posto giusto con la persona giusta.

E’ stato sicuramente il miglior anno della mia vita, ed è fuggito via con una velocità davvero strabiliante. Ma stavolta l’ho sentito passare.

Yoany Sanchez sequestrata e malmenata a Cuba

Nei pressi di calle 23, proprio alla rotonda dell’avenida de los Presidente, abbiamo visto arrivare a bordo di un’auto nera – di fabbricazione cinese – tre robusti sconosciuti: “Yoani, sali in auto” mi ha detto il primo afferrandomi con forza per un polso. Gli altri due trattenevano Claudia Cadelo, Orlando Luís Pardo Lazo e un’amica che ci accompagnava a una marcia contro la violenza. Ironia della vita, quella che doveva essere una giornata di pace e concordia si è trasformata in una serata carica di botte, grida e male parole. Gli stessi “aggressori” hanno chiamato una pattuglia che si è portata via gli altri miei due compagni, Orlando e io eravamo condannati all’auto con targa gialla, lo spaventoso terreno dell’illegalità e dell’impunità per l’Armageddon (1). Mi sono rifiutata di salire sul brillante Jelly e abbiamo preteso che si identificassero e mostrassero un mandato giudiziario che li autorizzasse a portarci via. Non ci hanno fatto vedere nessuna carta che provasse la legittimità del nostro arresto. I curiosi si accalcavano intorno e io gridavo: “Aiuto, questi uomini ci vogliono sequestrare”, ma loro hanno fermato chi voleva intervenire con un grido che rivelava tutto il fondamento ideologico dell’operazione: “Non vi intromettete, questi sono dei controrivoluzionari”. Di fronte alla nostra resistenza verbale, hanno preso il telefono e hanno detto a qualcuno che doveva essere il loro capo: “Cosa facciamo? Non vogliono salire sull’auto”. Immagino che all’altro lato la risposta sia stata categorica, perché dopo ci hanno riempito di botte e spintoni, mi hanno caricato con la testa verso il basso e hanno tentato di infilarmi nell’auto. Ho afferrato la porta, ricevendo colpi sulle mani, sono riuscita a togliere un foglio che uno di loro portava in tasca e me lo sono messo in bocca. Mi sono presa un’altra scarica di botte perché restituissi il documento. Orlando era già dentro l’auto, immobilizzato da una mossa di karate che lo faceva stare con la testa verso il pavimento. Uno ha messo le sue ginocchia sul mio petto e l’altro, dal sedile anteriore mi colpiva nella zona dei reni e sulla testa per farmi aprire la bocca e liberare il documento. Per un istante, ho temuto che non sarei più uscita da quell’auto. “Sei arrivata fino a qui, Yoani”, “Adesso la finirai di fare pagliacciate”, ha detto quello che era seduto accanto all’autista e che mi tirava i capelli. Nel sedile posteriore si poteva assistere a uno spettacolo molto strano: le mie gambe verso l’alto, il mio volto arrossato per la pressione e il corpo indolenzito, all’altro lato c’era Orlando conciato male da un picchiatore professionista. In un gesto di disperazione sono riuscita ad afferrare, dai pantaloni, i testicoli di questo personaggio. Ho affondato le mie unghie, supponendo che lui avrebbe continuato a schiacciare il mio petto fino all’ultimo respiro. “Uccidimi adesso”, gli ho gridato, con il fiato che mi restava, ma quello che stava nei sedili anteriori ha detto al più giovane: “Lasciala respirare”. Sentivo Orlando ansimare e le botte continuavano a cadere su di noi, ho pensato per un attimo di aprire la porta e gettarmi fuori, ma all’interno non c’era una maniglia utilizzabile. Eravamo nelle loro mani ma ascoltare la voce di Orlando mi rincuorava. In seguito lui mi ha detto che gli accadeva lo stesso ascoltando le mie parole rotte dai singhiozzi… perché gli dicevano “Yoani è ancora viva”. Ci hanno lasciati in pessime condizioni, scaraventandoci in una strada della Timba, una donna si è avvicinata: “Che cosa vi è successo?”… “Un sequestro”, ho risposto. Ci siamo messi a piangere abbracciati in mezzo al marciapiede, pensavo a Teo, non sapevo come avrei potuto spiegargli quel che avevo passato. Come potrò dirgli che vive in un paese dove succedono queste cose, come potrò guardarlo e raccontargli che sua madre è stata malmenata in mezzo alla strada perché scrive un blog dove esprime le sue opinioni in kilobytes. Come potrò descrivergli il volto autoritario di chi ci ha fatto salire con la forza su quella macchina, il piacere che si leggeva sui loro volti mentre ci percuotevano, alzavano la mia gonna e mi trascinavano seminuda verso l’auto. Sono riuscita a vedere, nonostante tutto, il livello di agitazione dei nostri aggressori, la paura del nuovo, delle cose che non possono distruggere perché non le comprendono, il terrore del gradasso che sa di avere i giorni contati.

Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

faces

Da quando ho iniziato a lavorare ho visto circa 90.000 persone, faccia più faccia meno.
Già dopo due settimane mi sembrava di riconoscere qualcuno, di notare tratti familiari, di averci già parlato addirittura.
Ma realisticamente la cosa è piuttosto difficile dato che i miei visitatori sono soprattutto stranieri, per lo più da fuori Italia, spesso da oltre Europa. Due volte a Venezia? Due volte nel mio padiglione? That’s very hard…

È incredibile quanti tratti diversi esistano, quante combinazioni inedite, quanti volti differenti.
Ed è altrettanto straordinario il potere della nostra mente di cogliere questi tratti, immagazzinarli, radunarli, a volte semplificarli. Per non dimenticare, per non farci fare brutta figura, per non confondere il noto con l’ignoto.

Purtroppo la cosa funziona anche nell’altro senso e così ciò che ci è ignoto ci appare, per qualche motivo, un pochino noto

Altri mondi?

Andrea Scanzi per La Stampa:

Ci sono storie che gelano il sangue. Di solito, sono storie che non si raccontano mai fino in fondo. Per non ferire o per non disturbare il manovratore. Chi scrive ha il nervo (particolarmente) scoperto per le violenze di Stato. Per il sopruso della Legge. Per il manganello facile.
Chi scrive prova imbarazzo e disgusto, se pensa alla mattanza della scuola Diaz, alle torture di Bolzaneto (tutte impunite) e alla verità ufficiali che hanno reso più "accettabile" la morte di Carlo Giuliani.  Chi scrive prova terrore se pensa a quanto accaduto a Ferrara nella notte del 25 settembre 2005.

Le storie terribili vanno raccontate con leggerezza e precisione. In questo senso, le graphic novel aiutano. Ne escono di meravigliose, qualche giorno fa ho terminato Pyongyang di Guy Delisle: stupendo. E’ dunque oltremodo consigliabile Zona del silenzio, di Checchino Antonini e Alessio Spataro. La prefazione, impeccabile, è di Girolamo Di Michele. Il libro, che riecheggia per disegni il grande Maus di Art Spiegelman, è uscito un mese fa per Minimum Fax. Racconta l’omicidio di Federico Aldrovandi. E’ tutto vero, al di là dei nomi (ironicamente) mutati di alcuni giornalisti, politici e quotidiani. E’ un libro che racconta come per alcuni il "diverso" non sia che una zecca. Qualcosa da umiliare e ridicolizzare, nel nome della legge.
 "Zona del silenzio" era il cartello in Via dell’Ippodromo a Ferrara, davanti al quale il ragazzo è morto. Non si saprà mai quando tutto è cominciato. Probabilmente una signora di Ferrara ha chiamato il 113 perché disturbata dalle urla di un ragazzo nella notte. Quel ragazzo è Federico Aldrovandi, 18 anni. 

Sono, più o meno, le 5 del mattino. Federico ha passato la serata con gli amici e ha chiesto di essere sceso lì. Ha bevuto, l’esame autoptico rivelerà presenza di eroina e ketamina. E’ un aspetto decisivo: la polizia dirà che il ragazzo è morto di overdose, che urlava perché eccitato dal mix di alcol e stupefacenti. 
E’ vero che il ragazzo aveva assunto droghe. Non è vero che la quantità era tale da giustificare un overdose: la ketamina, ad esempio, era 175 volte inferiore alla dose letale. E non è neanche credibile la tesi della droga come eccitante, conisderando che l’eroina (un oppiaceo) ha casomai effetto sedativo.
La famiglia Aldrovandi ha sempre negato che Federico facesse uso regolare di droghe. Era solo un ragazzo di 18 anni che, quella sera, aveva esagerato un po’. Quello che è successo a lui, poteva succedere a tutti.
Federico muore poco dopo le 6 del mattino. Era disarmato e incensurato.

La famiglia viene avvertita cinque ore dopo. Su youtube, e sul blog di Beppe Grillo, è presente il video della Scientifica. C’è il corpo di Aldrovandi a terra, segni di colluttazione. Si sentono i poliziotti che ridono.
La comunicazione tra Centrale e poliziotti, tre uomini e una donna, riporta frasi di questo tenore: "L’abbiamo bastonato di brutto". Il Giudice di Ferrara, lo scorso 6 luglio, ha certificato come i quattro poliziotti hanno ucciso il ragazzo con sequela infinita di manganellate e calci. Sono stati condannati in primo grado a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo.
La vita di un ragazzo senza colpe vale 3 anni e sei mesi. Anzi, neanche quelli, perché c’è l’indulto. La Polizia non ha radiato i quattro poliziotti. Gli amici di Federico Aldrovandi la stanno chiedendo, chi fosse d’accordo può scrivere a MAURO.CORRADINI.ALDROVANDI@GMAIL.COM:  Testo: "Aderisco alla richiesta di sospensione dal servizio dei 4 agenti della P.S. responsabili della morte di Federico Aldrovandi".
In rete trovate di tutto. Anche nella graphic novel. Ma nulla sarebbe stato svelato senza l’eroismo della signora Patrizia, madre di Federico, che il 2 gennaio 2006 ha aperto un blog per far luce sulla morte del figlio.  Da lì tutto è nato. Altri blog, l’interesse dei giornali, la vicinanza di Grillo, i libri, le meritorie inchieste di Chi l’ha visto? su RaiTre. La società civile che si muove. E una città, Ferrara, che per metà si chiude a riccio.  E minacce alla famiglia, e la Polizia che fa quadrato.  E un senso crescente di democrazia sospesa.

E’ una storia che non ha spiegazione alcuna. Una storia sbagliata, cantava Fabrizio De André. £Un omicidio di Stato". Forse Aldrovandi urlava davvero di notte. Forse era eccitato, forse ubriaco. Non lo sapremo. Sappiamo invece, adesso, il dopo. Quattro poliziotti che spezzano i manganelli (letteralmente) a furia di picchiarlo. Calci e ginocchiate al punto da spezzargli lo scroto. Il volto tumefatto, i vestiti zuppi di sangue. Il corpo trascinato barbaramente sull’asfalto. Il ragazzo che grida aiuto, senza che nessuno si fermi o intervenga in suo soccorso. Una mattanza durata decine di minuti e poi insabbiata (o meglio: quasi insabbiata). I poliziotti si sono difesi sostenendo tesi lisergiche: Aldrovandi era così eccitato che si faceva male da solo. Il volto tumefatto? Dava le testate contro l’auto. Il testicolo squarciato? E’ saltato a cavalcioni sul tetto dello sportello aperto, manco fosse una tartaruga Ninja. La morte? Un infarto, troppa eccitazione da overdose. No: l’autopsia ha rivelato che decisiva è risultata la pressione di uno o più poliziotti sulla schiena, che ha creato ipossia (mancanza di ossigeno) al ragazzo, peraltro ammanettato. Secondo il cardiologo, il cuore di Federico avrebbe cessato di battere dopo l’ennesimo colpo ricevuto.
E’ una storia di testimoni che prima parlano e poi si nascondono, di omissioni, di prove scomparse. Dell’ex ministro Giovanardi che minimizza in tivù, di un ragazzo normale fatto passare per un tossico mezzo matto. Di una città che non si schiera. Di una madre, di una famiglia ferite a morte. Eppur vive.
E’ una storia che fa molto Italia.

La sentenza del Giudice Filippo Maria Caruso (Ferrara)
Le deposizioni dei 4 agenti (Gazzetta di Parma)
Il Caso Aldrovandi si Wikipedia
Il video della Scientifica dopo la morte di Aldrovandi
Il blog della madre di Federico

Quantum leap

Ora che lavoro e sono in ufficio con l’aria condizionata (ancora per poco?) non mi accorgo davvero dell’estate che scorre fuori.

Però oggi, con il sole nitido del dopo-temporale, l’aria fresca come in montagna, il panorama splendido del settimo piano dell’ufficio di Padova, mi prende una specie di nostalgia. Nostalgia degli ultimi giorni di scuola, quando tornavo a casa accaldato e mi rendevo conto che – davvero – era finita: potevo scegliere cosa fare, come gestire la mia giornata, in quale dei miei interessi tuffarmi per primo. Una sensazione liberante e meravigliosa.

Non si tratta però esattamente di nostalgia, perché non vorrei tornare indietro. E’ più una sensazione di gioia malinconica. Ricordo quei giorni e quelle atmosfere e quando ci ripenso mi viene un tuffo al cuore; allora, nella penombra di casa, mi aggiravo scalzo e pensavo che un giorno, forse, avrei provato proprio questa sensazione, ed è come un tunnel emotivo che attraversa gli anni e gli stati d’animo, ricollegandomi al ragazzo che ero quattro, cinque, sei anni fa.

Ed è bello ricordarsi come allora ero consapevole di godere appieno degli attimi che mi venivano regalati. Una consapevolezza che conservo gelosamente e che mi permette di non rimpiangere quei momenti, e soprattutto di essere felice ora, di nuovo.

Per chi non se ne fosse accorto

In Iran in questi giorni stanno succedendo un bel po’ di cose interessanti. Una rivoluzione? Riccardo (il nostro coinquilino che studia persiano e che a settembre – se tutto va bene – se ne andrà in Iran) dice di no. Semplicemente una rivolta dopo delle elezioni smaccatamente truccate. Una rivolta che probabilmente finirà soffocata, in un modo o nell’altro, ma che comunque da a tutti un esempio illuminante di civiltà e di desiderio di libertà.

Per chi – come me – non fosse così à la page riguardo alla situazione iraniana, pubblico un efficace bignami del solito Francesco Costa:


Prima del voto
In Iran si vota ogni quattro anni per eleggere il presidente e i membri del parlamento. Nonostante questo, definire l’Iran una democrazia è una barzelletta: l’Iran è una teocrazia fondamentalista che vede al potere un sovrano assoluto – la guida suprema, l’ayatollah – e relega alle istituzioni elette poteri del tutto ininfluenti. In realtà è un eufemismo anche il verbo ‘eleggere’: solo i candidati approvati dagli ayatollah possono essere ammessi al voto, un voto al quale gli osservatori internazionali indipendenti non hanno mai assistito. Per non parlare dei mezzi di comunicazione, completamente sdraiati sulle posizioni del regime, di internet, continuamente oscurato, della libertà di espressione del proprio pensiero, inesistente, delle continue violazioni dei diritti umani, delle angherie commesse dalla polizia morale su donne e omosessuali, delle innumerevoli condanne a morte ai danni anche di minorenni, e l’elenco potrebbe continuare. Ben lungi dall’essere una democrazia, l’Iran è una delle dittature più efferate e violente che questo mondo abbia conosciuto. Ogni quattro anni il regime mette in piede il teatrino delle elezioni, e dopo aver accettato solo candidature gradite, aver blindato i mezzi di comunicazione e la campagna elettorale, chiede ai propri cittadini di andare a votare, in un clima di intimidazioni e violenze. Il risultato, che piaccia o no ai cittadini, è già stato deciso dagli ayatollah. A questo giro si sfidavano il presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad, espressione sopraffina della violenza retrograda del regime, e Mir-Hossein Mousavi, nel ruolo del candidato “moderato”. Mousavi non è uno per cui una persona libera e democratica potrebbe fare il tifo: i suoi proclami sono sostanzialmente quelli degli ayatollah, sebbene siano esposti senza la violenza verbale del suo avversario. Un volto presentabile, insomma, con qualche differenza un po’ più concreta, soprattutto a livello di immagine e linguaggio. Un esempio su tutti: di Ahmadinejad si ricorda una solo foto in compagnia della moglie, ed è una foto terribile. Mousavi e la moglie hanno fatto campagna elettorale insieme – direi all’americana, se non fosse un po’ una bestemmia – e non sono mancati i proclami di buone intenzioni. Che non sono tutto, ma non sono nemmeno niente: sono una differenza. Fino a sette, dieci giorni prima del voto, gli osservatori e i commentatori erano unanimi del dare Ahmadinejad in leggero vantaggio, nonostante la sua crescente impopolarità. A un certo punto però è successo qualcosa. Ne avrete letto in giro, se n’è parlato come della green wave iraniana, l’onda verde. Attorno a Mousavi si è formato un clima di fermento e attesa: comizi frequentatissimi, slogan provocatori verso il regime, centinaia di ragazzi in strada, atmosfera elettrica da grandi cambiamenti. Un entusiasmo tale da non poter essere giustificato dal profilo del candidato, bensì semmai da un rigetto nei confronti del regime, alle prese peraltro con gli effetti della crisi economica. Qui si dovrebbe fare un lungo racconto della società iraniana, di come è diversa da quella degli altri paesi arabi, di come solo trent’anni fa quel paese fosse un altro paese. Si era come risvegliato qualcosa.

Il voto
Come dicevamo, il voto in Iran è una farsa e questa ne è stata la prova ultima e definitiva. I risultati delle elezioni approvati dagli ayatollah poche ore dopo la chiusura dei seggi, la distribuzione bizzarra dei consensi (la stessa percentuale dappertutto, persino nel villaggio di nascita di Mousavi), il blocco dei sistemi di conteggio indipendenti dei candidati, i messaggi contraddittori provenienti dai luoghi degli scrutini: le incongruenze sono innumerevoli. La notizia non è tanto questa – sebbene stupisca la fretta, l’approssimazione e la superficialità con cui i trogloditi al potere abbiano orchestrato questo teatrino – bensì quello che è accaduto dopo. Un casino.

Dopo il voto
Un casino inenarrabile e inimmaginabile, per un paese del quale conoscevamo la presenza di un generale malcontento ma non una tale instabilità sociale. Le strade si sono riempite di manifestazioni di protesta nei confronti di un regime che ha subito mostrato tutto il repertorio di ogni dittatura degna di questo nome: repressioni violente, scontri, spari, blocco delle linee telefoniche e del traffico cellulare, ostacoli per i collegamenti internet, cacciata dei giornalisti stranieri, eccetera. Mousavi è stato messo agli arresti domiciliari, insieme a un centinaio di suoi sostenitori. Si racconta di morti e diversi feriti, ma nessuno ha delle cifre precise. Mi sembra si tratti più di una ribellione nei confronti del regime, degli ayatollah, dell’autorità statale, piuttosto che di un rifiuto del fondamentalismo islamico e della legge religiosa come legge dello stato. Mi sembra si tratti di una confusa richiesta di libertà, e non di una rivoluzione organizzata attorno a un’idea, a un progetto, a una volontà di sovvertire l’Iran come lo conosciamo. È una cosa che avrà altre fiammate, da qui ai prossimi giorni, ma che è comunque destinata a essere repressa e spegnersi, a meno di sorprese.

L’occasione
Una cosa simile è già successa, in passato, anche se non in Iran. Successe in Cina, esattamente vent’anni fa, e oggi come allora la scintilla non fu una manifestazione per la libertà di parola, la richiesta di libere elezioni o l’oscuramento dei mezzi di comunicazione. Vent’anni fa in Cina le proteste nacquero addirittura dalle manifestazioni di cordoglio per la morte del leader del partito comunista cinese, e la scintilla fu la pressante richiesta di riforme economiche. Cosa successe? Successe che le proteste durarono un po’, un bel po’, e poi, violenza dopo violenza, cessarono. Il regime attuò alcune riforme in senso capitalista e imparò a gestire diversamente le mobilitazioni popolari, garantendosi la sopravvivenza per molto tempo ancora. La scintilla di libertà dei ragazzi cinesi era stata soffocata. A me sembra che in Iran stia accadendo qualcosa di molto simile. Non stiamo assistendo a una rivoluzione che può sovvertire il regime degli ayatollah. Stiamo assistendo a un grido di aiuto, a una confusa richiesta di libertà, da parte di chi oggi forse non immagina bene nemmeno cosa voglia dire, essere liberi. Quindi ricorre agli unici modelli che ha, all’unico codice che conosce. La religione. I ragazzi per le strade di Teheran urlano Allahu Akbar, ma si fanno arringare da una donna. Il verde islam è il loro colore, ma chiedono di essere liberi di scegliere da chi farsi governare. Queste manifestazioni sono un’occasione, una scintilla di libertà che è difficile non riconoscere. Non è detto però che i loro effetti saranno obbligatoriamente positivi. Possono finire nel nulla tra dieci giorni, possono convincere il regime a darsi un volto più presentabile e garantirsi la sopravvivenza. Oppure possono sovvertire gli ayatollah, e non cambiare niente comunque. I genitori di questi ragazzi ricordano bene quanto accadde nel 1979, quando dopo la cacciata dello scià il vuoto di potere, regole e autorità venne colmato dall’unico sistema di potere, regole e autorità che era rimasto in piedi, cioè l’islam. E qui entriamo in gioco noi.

 

Se non ora, quando?
Sì, noi. La comunità internazionale non può rimanere a guardare. Una delle più efferate dittature di questo mondo è nel suo momento di massima difficoltà, ma questo non basterà a farla cadere se non le diamo una spintarella. Lo so, è dura, le controindicazioni possono essere decine, ma a me sembra che difficilmente ricapiterà un’occasione così: ora o mai più. Come? Ci sono tante cose che si possono fare, nella scala che va dalle dichiarazioni di solidarietà verso i manifestanti, fino all’intervento di una forza multilaterale sotto la guida dell’Onu (d’altra parte, se è vero che “la democrazia bisogna volerla e meritarsela”, direi che gli iraniani ci stanno dando ben più di un indizio sui loro desideri). Ci sono pressioni che si possono esercitare, alleanze che si possono stringere, minacce che si possono fare. Ma facciamo qualcosa, non voltiamoci dall’altra parte. Non facciamo sì che ci passi invano davanti agli occhi una nuova Tiananmen.

Per saperne di più

Per saperne molto di più (in inglese)

Point of view

“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali.”

Emigranti Italiani(Dalla relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano
sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912)

…e continuava…

“Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.

da Macchianera (purtroppo non ho la fonte diretta)

La negghia

Paesi antichi come il tempo
fanno le veglie al cuore della nebbia
ma i pensieri vogliono passare
per guardare se c’è un muro
che ci nega il futuro

come formiche senza sosta
che trasportano il frumento
spingiamo solo con le mani
sole entra con le mani
sposta la nebbia

quando arriva la mattina
accarezzi la rugiada
e questa terra si risveglia
e diventa meraviglia

quanti pensieri hanno cercato il cuore della nebbia
quante braccia hanno cercato di abbattere questo muro
quanti cuori

Peppino Impastato