Questa avrei tanto voluto scriverla io

Il Re Cremisi aveva un debole per le stelle. Per gli astri. Per gli accordi di seta. Aveva un debole per le fantasie più arcane. I versi primordiali. Il Re amava i pazzi.
E fu così che le stelle caddero ad una ad una per diventare rosse rosse, farsi musica e guardare il cielo da quaggiù, scoprendo che non era così male, scoprendo di non voler più tornare a casa.
Nel 1975 il progressive rock muore e dopo tre giorni risorge. Red.
Nove, supernove, nebulose, nane degeneri.
Con il punk alle porte. Con la wave a inondare le camerette.
Chitarre colte, fraseggi esoterici, ritmi d’essai.
Robert Fripp ha preso un asta e ha misurato la distanza tra la terra e il cielo. “Providence”.
E poi Kurt, Kurt Cobain, che lo chiama il più grande album di tutti i tempi. Lui che non c’entra neppure. Che vi piaccia o no. Che vi piacciano o meno.
I riff s’inseguono e Mister Wetton balla sulla tastiera del basso, zappa, ci dorme su, ci fa l’amore con la gola asciutta e dolciastra.
Brufford sbatte, intanto. Sbatte ancora…sulla tomba del rock, dalla sua tomba spreme ciò che resta e il resto è questo.
I King Crimson sono ormai un trio, un condensato.
E si mostrano in copertina. La prima volta. L’ultima. Perchè vogliono essere visti. Ora o mai più. Torneranno negli anni Ottanta ma tutto è cambiato. Tutto collassa. Tutto tace.
E poi l’esplosione finale, lectio magistralis. A chi vi dice che “Starless” non è la suite definitiva, a chi vi dice che c’è qualcosa oltre rispondete che volete dormire sonni tranquilli.
Perchè oltre c’è solo il delirio.
Ancora un passo.
Ancora un passo e non ci sareste più.

Bacotabacco, su Debaser

ellisse

Ieri sera siamo andati al cinema a vedere Agora.

Il fatto che fossimo in 6 spettatori (di cui 4 entrati con la riduzione studenti) mi ha convinta che il motivo per cui la pellicola è arrivata così tardi in Italia sia stato lo scettismo dei distributori riguardo al suo successo di pubblico (nonché il suo costo: 73 milioni di dollari ) e non tanto le critiche del Vaticano, delle quali per altro non esiste alcuna traccia.

E questa storia della censura, del complotto, è perfettamente in linea con il tema del film: l’ellisse (credits: Lorenzo Sartori).

La protagonista del film è Ipazia, astronoma e filosofa di Alessandria d’Egitto realmente esistita nel IV sec d.C., la cui figura viene tratteggiata in modo piuttosto fedele rispetto alle fonti che possediamo.

Durante tutto il film laSignora” si interroga sui moti celesti e sul sistema solare, confutando la tesi di Tolomeo, allora la più accreditata; ciò che le fa mettere in dubbio la teoria geocentrica è il movimento delle “stelle erranti” che sembra non avere senso se si considerano le orbite come circolari. In un passaggio che non riesco a citare esattamente, dopo una considerazione del suo schiavo (curioso che il ruolo svolto ora dagli assistenti accademici venisse allora considerato un lavoro da schiavi), Ipazia nel pensare all’orbita della Terra come ellittica dice: “ma come può la perfezione del cerchio stare in una forma così imperfetta?”

Ecco, il film è tutta una descrizione di cose che sembrano perfettebuone, ma hanno un che di imperfettocattivo: i cristiani che danno da mangiare ai poveri, che non fanno distinzioni tra padroni e schiavi, che parlano di perdono e pietà sono gli stessi che compiono di continuo stragi, ora contro i pagani, ora contro gli ebrei. Gli accademici della bibliteca che conoscono il valore della ragione e coltivano le più alte scienze, scendono in piazza (pardon, nell’agora) per difendere gli dei nei quali anche loro cominciano a non credere più e non disdegnano di farlo con le armi. La stessa Ipazia, così intelligente e illuminata non mette in dubbio l’idea di schiavità.

Poi, certo, il film è un manifesto contro il fanatismo; chi è convinto che i cristiani siano tutti dei fanatici lo ha visto come un film anticristiano e ha ben pensato di creare un casus belli sulla sua non distribuzione in Italia per circa un anno. Ecco, persone intelligenti e sicuramente in buona fede si sono però comportate come le masse – elleniche, cristiane ed ebree – che animano il film: davanti ad un oratore particolarmente abile non hanno chiesto altre spiegazioni, non hanno cercato le fonti, ma hanno risposto pronti, alzando i pugni con un bel “sì, siamo con te. Alleluja”.

A cruel truth

Fra i tanti eventi sociologicamente importanti del terzo millennio che passeranno alla storia, sono sicuro che un posto sarà riservato di diritto al fenomeno delle boy-band. Prodotti commerciali progettati a tavolino allo scopo di vendere a folle di ragazzine sessualmente inferocite lo sfogo ai loro bollenti spiriti, garantendo oltretutto il vantaggio di non rinunciare allo status di anime pie e pure che tanto gli si conviene. Eh sì, perché il nostro evolutissimo modo di pensare non permetterebbe mai a una ragazza in piena pubertà di provare desideri sessuali come natura comanda, ma solo candide fantasie di amori romantici color azzurro principe, pena il severo giudizio di tutta la comunità.

Disumano, direte voi, forse stupido. Ma la nostra società funziona così, tanto che questo fenomeno ci appare oggi normale e conclamato. Per coloro che danno la colpa di tutto ciò al maschilismo, sarebbe il caso di prendere in considerazione che anche nel mondo maschile esiste un corrispettivo altrettanto disumano. No, non sto parlando delle “girl-band” come sarebbe ovvio pensare, bensì di alcune metal band. Sì, perché moltissimi ragazzi hanno l’esigenza – opposta rispetto alle ragazze – di mostrare virilità e mascolinità e nascondere vergognosamente la loro anima sdolcinata, romantica e pacchiana. Sarebbe sconveniente, infatti, per un ragazzo di 20 anni, mostrare passione per sentimenti degni dei peggiori melodrammi gigidalessiani, o essere beccato da qualche amico mentre esce dal supermercato con in mano uno di quei romanzi Harmony che campeggiano davanti alle casse a prezzi stracciati. Come ci rimarrebbero gli altri, poi, se sapessero delle rime dedicate alla inarrivabile compagna di liceo scritte su diari segreti nascosti nel doppiofondo del proprio cassetto personale accanto alle videocassette con tutti gli episodi di Fantaghirò?

Ecco quindi che l’unica scappatoia per questi poveri ometti sensibili e indifesi, che sentono su di loro la pressione della società omologatrice che li forza dentro schemi che non gli appartengono, si concretizza come una sola: comprare la discografia dei Dream Theater. Così potranno struggersi in lacrime di passione sull’assolo “lento” di "A Change Of Season", o toccare il sentimento assoluto su "Through Her Eyes", mantenendo però di fronte a tutti l’austero aspetto dell’uomo serio che ammira i dettagli “tecnici” della “vera musica”. Potranno dire con la faccia da veri duri “Oh, hai sentito la rullata in 17/16 al quinto minuto virgola quattordici di Erotomania? Ieri ho provato a rifarla e mi sono slogato un polso! Che mostro Portnoy!” e intanto pensare “Povero Julian, che fine grama che ha fatto per colpa di quel bastardo di suo fratello, in fondo fra lui e Victoria era vero amore! Ma tanto Victoria vive ancora, l’amore vince sempre, love is davvero the dance of eternity!!” (…)

Il resto di questo splendido trattato di psicologia giovanile di Stoney, abilmente mascherato da recensione musicale, si trova su DeBaser. Ve lo consiglio!

Promise less or do more

Nei giorni scorsi cercavo un libro, che sapevo di avere in camera da qualche parte, con i testi e le traduzioni dei primi album dei Pearl Jam. Non trovandolo – ed approfittando della mia condizione di inoccupato che mi permette di avere molto tempo libero a disposizione – decisi così di mettere in ordine la scrivania in modo da farlo saltar fuori.
Divenne presto evidente però che il problema della scrivania non stava nel disordine degli oggetti su di essa riposti, ma nell’impossibilità per tali oggetti di essere infilati in qualche altro pertugio nella stanza. In parole povere: lo spazio era poco, la roba tanta, e molti oggetti non potevano stare da nessun altra parte se non sulla scrivania! Ma il lavoro ormai era iniziato: che fare? Rimettere tutto a posto, con amarezza, o continuare l’opera di riordino, sapendo di dover mettere pericolosamente mano anche alle mensole, alla libreria, ai cassetti e alle scatole sotto al letto?

Ovviamente la prima possibilità era inaccettabile, ed è così che ho passato gli ultimi due giorni in camera, sepolto in mezzo agli oggetti ed alla polvere (da me stesso accumulata, ovviamente), cercando di mettere a posto ciò che un posto l’aveva e di buttare via ciò che invece non ce l’aveva.
La ricerca, come è facile immaginare, ha dato dei frutti inaspettati: oggetti che credevo perduti, altri di cui ignoravo l’esistenza, altri che chissà perchè avevo tenuto. Alla fine, complice la fine degli studi e l’inutilità improvvisa di montagne di appunti, il cumulo delle cose da buttare via era ancora più impressionante del solito, e la stanza stranamente spoglia. Sono arrivato addirittura al compromesso, un tempo impensabile, di inscatolare la mia più che discreta collezione di Martin Mystère. Un misero sacrificio piuttosto di cedere al compromesso della doppia fila per i libri!

Certo, passare due giorni sepolto nella propria stanza ha dei vantaggi rispetto ad altri lavori: per esempio si può approfittare del tempo che si passa all’opera per esplorare la propria collezione musicale. Ed è così che ho scoperto, praticamente per caso, la combinazione musicale perfetta per lavori di questo tipo, siano essi traslochi, pulizie di primavera, riordini dei garage o delle stanze, repulisti generale post-cena con amici. Niente di trascendentale, si tratta soltanto di mettere su, rigorosamente in shuffle, un paio di album di Emiliana Torrini con i due dischi finora pubblicati dei The whitest boy alive.
Chi sono costoro? Semplice. La prima, Emiliana, a dispetto del nome è un folletto islandese la cui voce somiglia molto, nel timbro, a Bjork. La sua musica però, pur non semplicissima, è un pop sinuoso che poco ha a che fare con le sperimentazioni della celebre conterranea. I secondi invece, dei quali ho più diffusamente parlato nella stanza a fianco, non sono altro che una specie di mash-up dei Kings of convenience con l’eletronica fine-anni-70, la disco ed il Funky, e nell’organico vantano un membro dei Kings of convenience stessi.
Musica nordica, quindi (i KoC sono Norvegesi), e forse per questo adatta al rigore con cui va affrontato un lavoro come le pulizie, o i traslochi. Sta di fatto che per due giorni non ho ascoltato altro, senza annoiarmi o appesantire il mio lavoro – anzi – dandogli il ritmo e la cadenza degni della miglior Mary Poppins.
Se non ci credete, provate! Poi mi saprete dire! =)

P.S. Ah, ovviamente alla fine il libro dei Pearl Jam non era in camera, ma era nascosto in salotto. Classico caso di ironia della sorte.

Cari Marta sui tubi…

…non c’è niente di peggio di andare ad un concerto ed avere delle aspettative. Non bisognerebbe mai averne! Nel peggiore dei casi ti distruggono un’esperienza, nel migliore ti fanno mettere in luce tutte le piccole cose che non vanno, a scapito di quelle migliori.

Nel vostro caso però non ce l’ho proprio fatta: i vostri CD da quando ho iniziato la tesi li ho consumati, li sto imparando a memoria, declamo i vostri versi con gli amici e mi sento un perfetto deficiente. Così, quando sono arrivato al concerto di San Giovanni Lupatoto, le aspettative le avevo. Ed erano alte.

Come se non bastasse sono arrivato, di fretta, alle 21.00, e voi siete saltati fuori sul palco alle 21.40. Quindi, oltre alle aspettative, si era aggiunta l’ansia dell’attesa.

Per fortuna c’è solo una cosa più bella dell’andare ad un concerto non aspettandosi nulla e rimanendo sorpresi: andare ad un concerto aspettandosi tanto e rimanendo sorpresi lo stesso.
Voi bastardi siete stati così dannatamente bravi, così maledettamente precisi ma anche emozionanti, così trascinanti e onesti, così… come io vi avrei voluto, che non sono riuscito a non entusiasmarmi. E neanche ci ho provato, se è per quello.

Insomma, grazie. Lunga vita ai Marta. Capitatemi ancora a tiro di una cinquantina di km e corro a vedervi!

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 Mars Volta Sciamani su Marte
Riccardo Bertoncelli

 
Sogni esagerati, poteri acculti, Vita e Morte. Un’aliena especie de Rock Progresivo
 
Sandro Veronesi mi ha detto una cosa molto bella l’altro giorno, divagando a proposito mentre si parlava del nostro amato Frank Zappa. "Oggi in letteratura domina una scuola di pensiero", così ha detto, "che se vogliamo chiamare scuola è comunque elementare: e la sua lezione è tagliare, tagliare, tagliare fino all’osso. L’essenziale. Il minimo".
Ora, un conto è se lo faceva Cassola, che scriveva nel dopoguerra e aveva questa idea delle frasi in un libro come parole nei telegrammi, ognuna costava. Ma se ci pensi bene adesso, nel nostro tempo, tagliare è la frase più cazzara del mondo. Vai ad ascoltare Zappa. Non siamo più dopo la guerra, dove si risparmiava tutto perché non c’era, da tanto tempo siamo nell’era dell’abbondanza – e che diavolo vuole dire tagliare? Magari la cosa bella stava proprio lì, che ne sai?".

Quando sono tornato a casa, la sera, avevo il disco nuovo dei Mars Volta da ascoltare e quelle parole mi hanno illuminato l’ascolto. Certo i MV non sono FZ, ogni loro album non contiene spunti per altri dieci e glosse ad altri quindici; ma rendono comunque l’idea di quest’epoca densa e fitta, ambiguamente ricca, di questo reticolo di storie emozioni informazioni eventi ricordi che s’intrecciano e rimbalzano rumorosamente ad alta energia, e noi in mezzo storditi eccitati confusi. I Marziani non fanno filtro, assorbono e rimandano: e il rock che suonano è eruzione, colata lavica, sproloquio, farneticazione, con tutto il piacere che questo può comportare e naturalmente anche lo stress, il disagio, un senso vago di nausea che non capisci se è una porta da forzare per un livello superiore di fruizione o un buco nero maledetto che finirà per inghiottirti.

Amputechture, il nuovo album dei Mars Volta, è un’opera appunto di esagerata abbondanza; già nel gonfio neologismo che lo intitola, e nei testi metallicamente sopra le righe, ma soprattutto nelle monsoniche devastazioni di chitarre e tastiere lunghe un’eternità e un giorno, infilate in quelle sterminate collane che nella storia dell’arte rock sono state una specialità dell’epoca psichedelica e progressiva – brani di otto, dieci, quindici minuti, albe e tramonti, risa e pianti, abissi e vette in vertiginosa sequenza cinemascope.

Conoscono la storia dell’arte rock, i Mars Volta? La conoscono, certo, loro e gli amici che danno una mano come John Frusciante, a cui appartengono diverse parti di chitarra del disco. Dicono che Frusciante sia un iperappassionato di Yes e in effetti può starci, qui dico, non nei Red Hot Chili Peppers; e con gli Yes i King Crimson, naturalmente, quelli originali e i più recenti, e se vogliamo i Porcupine Tree e perfino i Pink Floyd, un giorno che si persero lungo la strada e finirono chissà come a Bron Y Aur, nel cottage gallese di Led Zeppelin III, e già che c’erano si divertirono a fare jam con Jimmy Page alla chitarra. Il mondo è quello, anche se nemmeno sotto tortura userò la parola "(Neo) Prog" e darò senz’altro per buono quello che il chitarrista Omar Rodriguez Lopez ha dichiarato fino allo sfinimento sulle intenzioni della sua band: "Come può non essere progressiva l’arte o la musica che si propone di essere innovativa e d’avanguardia?".

I Mars Volta esistono da cinque anni come evoluzione di una geniale band di southern psico, At The Drive In. Musica e idee ruotano intorno a Rodriguez-Lopez e al cantante paroliere Cedrix Bixler-Zavala, con ricorrenti va e vieni di collaboratori. Dall’EP Tremulant autoprodotto a questo Amputechture, mai un disco banale o tirato via: forse solo il live Scabdates, l’anno scorso, pallida fotografia di una band che proprio dal vivo dovrebbe risaltare di più. Nel primo album, De Loused In The Comatorium, hanno raccontato sotto mentite spoglie l’angosciante storia vera di un amico entrato in coma in seguito a un tentativo di suicidio fallito, rimesso in vita e ferocemente convinto a farla finita, alla fine con successo. Con il secondo, Francis The Mute, hanno musicato la vicenda di un uomo che cerca i suoi genitori naturali basandosi su un diario trovato casualmente da un membro della band, poi defunto. Vita e Morte, sempre così, "epici scontri fra la parte luminosa e quella oscura della coscienza". Questo terzo Cd non ha un concept conduttore ma spunti differenti che alla fine si accordano e trovano un senso, "un po’ come in quel film di Paul Thomas Anderson, Magnolia". è un disco sulla Divinità, "ma non l’amore per Dio, piuttosto la paura di Dio, che è così strettamente connessa con il Cattolicesimo. Per me", spiega Bixler-Zavala, "la religione è il motivo per cui ci sono così tanti conflitti nel mondo, e penso che non sia necessario credere in un Dio con capelli lunghi, barba bianca e occhi azzurri. Amputechture è il mio personale modo di descrivere l’illuminazione e di celebrare quelle persone che sono sciamani ma qui in Occidente vengono trattate come pazzi".

Qualcuno sostiene che i Mars Volta siano nati e morti con il primo album, che strada facendo abbiano corrotto la loro idea originale e non riusciranno mai più a suonare a quel modo. Altri sono perplessi davanti alla svolta spiritualista di Amputechture e trovano che argomenti così forti pesino troppo sulle fragili spalle della band. Può essere tutto, come negarsi dei dubbi davanti a una band tanto barocca, non minimale e autoindulgente?
Però la loro musica è un brivido voluttuoso, e quelle chitarre di mercurio, quella voce che scivola dal freddo al caldo, dall’inglese accorato di Tetragrammaton allo spagnolo sinuoso di Asilos Magdalena, sono una bella suggestione. Consci di vivere in un’epoca abbondante, i Mars Volta disdegnano il poco delle canzonette e con avidità, velleità, smania costruiscono enormi gabbie fantastiche e si impicciano di Grandi Numeri come le storiche band del loro Walhalla. Hanno mani malferme, ma come non ammirarli mentre almeno provano a bussare at the heaven’s door?

nessun titolo

Stasera io e il buon Rennis eravamo in ottima forma, musicalmente parlando.
Sarà che ci siamo "scaldati" guardando un pezzo del DVD "live in Arena" degli Jamiroquai, più un pezzo del "Live at Rock am ring" degli Alice in chains col nuovo cantante, ma per essere un set acustico… beh, avevamo davvero "tiro", secondo me.

Ecco la scaletta:
– Brother (Alice in chains)
– Rooster (Alice in chains)
– Down in a hole (Alice in chains)
– Nutshell (Alice in chains)
– Coming back to life (Pink Floyd)
– Breathe (Pink Floyd)
– Time (Pink Floyd)
– Comfortably numb (Pink Floyd)

Bis:
– Green is the colour (Aldo’s gone to bed version)

Slevin

Lo so, sono acido. Ma cosa posso farci?
Odio andare al cinema e scoprire alla fine che a me, solo a me, il film non è piaciuto.
Mi fa sentire, a seconda dei casi, terribilmente idiota o terribilmente lucido. In ogni caso, solo.
Fondamentalmente si va al cinema per condividere un’emozione, un’esperienza. Per me uscire e scoprire che solo a me un film non è piaciuto (o solo a me è piaciuto, ma questo non è mai capitato) è una delusione.

Il film che siamo andati a vedere stasera, e che sconsiglio con tutto il cuore, è slevin (patto criminale).
Ero partito con i migliori propositi: il trailer sembrava allettante, la compagnia era quella giusta, il cinema uno dei migliori della zona.

Parte il film e già dopo un quarto d’ora capisco l’andazzo. In pratica il film si barcamena su una serie di situazioni volutamente pulp, cercando in tutti i modi di essere sia carne che pesce, sia coinvolgente che leggero.
Ecco quindi che abbiamo un protagonista apparentemente privo di sentimenti, a suo agio nel mondo dei gangster così come con la sua vicina di casa (Lucy Liu), con la quale ha un rapporto amoroso talmente stereotipato e vuoto (e insulso ai fini del film) da non sfigurare in un film porno.
Ecco le scene splatter, inserite ritmicamente ogni cinque minuti, spesso ripetute a vuoto tanto per far inorridire lo spettatore, ormai de-sensibilizzato alla vista del sangue dopole prime due.

Lo so, sono acido. Ma cosa posso farci?
Odio andare al cinema e scoprire alla fine che a me, solo a me, il film non è piaciuto.

Comunque, non bastasse ciò, la storia narrata è di una banalità sconcertante. Ciò ovviamente non basta a fare un brutto film, ci sono storie banali dirette benissimo, ma spesso una storia originale è servita a  salvare un film scadente.

Invece qui niente, una banalissima storia di vendette trasversali attraversate da dei colpi di scena che non sono tali.
Nessun brivido, nessuna sorpresa vera, nessuno straniamento: solo sangue e tante, tante inquadrature alla Quentin Tarantino.

Ecco, l’impressione che ho avuto da questo film è "vorrei essere Pulp Fiction ma non posso". Stesso senso dello humour, almeno nelle intenzioni, stessa freddezza nel trattare la morte e la vita. Con la differenza che qui, nei due-tre punti chiave, hanno provato addirittura ad inserire dei momenti strappalacrime. Con risultati ovviamente disastrosi, dopo due ore passate a demolire ogni sorta di sensibiltà nello spettatore.

Un film senza un apice narrativo, con delle inquadrature spesso smaccatamente "costruite", così ricco di battute prevedibili che ad un certo punto pensavo di essere io lo sceneggiatore.

Lo so, sono acido. Ma cosa posso farci?
Odio andare al cinema e scoprire alla fine che a me, solo a me, il film non è piaciuto.

…senza contare l’introspezione psicologica, a livello da puntata dei Puffi.
Ma forse nemmeno: almeno dei puffi si conosce qualcosa: vanitoso è vanitoso, forzuto è forzuto, Grande Puffo è canuto.
In Slevin invece non si riesce a dedurre nulla dalle azioni o dalle parole dei protagonisti: non si capisce cosa sia menzogna e cosa sia realtà, e la cosa peggiore è che non mi sembrava affatto un effetto "voluto" dagli autori. Il protagonista passa nella considerazione dello spettatore da "atarassico" a "spietato" a "vittima di un crudele destino", ma non si capisce nulla di più di lui. Mr. Goodcat (alias Bruce Willis), poi, è più che altro un "deus ex machina" che un personaggio vero e proprio.

Tonnellate di cliché (dagli ebrei al figlio omosessuale del gangster, dalla carta da parati nell’albergo alla vicina che chiede la tazza di zucchero) che farebbero anche ridere se inserite in un contesto paradossale, ma messe in un film che negli ultimi tre quarti d’ora pretende di essere un dramma realistico fanno cascare le gonadi.

Lo so, sono acido. Ma cosa posso farci?
Odio andare al cinema e scoprire alla fine che a me, solo a me, il film non è piaciuto.

Soprattutto quando, come in questo caso, sembra che non sia piaciuto davvero soltanto a me (almeno a giudicare dai premi che questo filmazzo si è cuccato e dalle opinioni adoranti che si trovano in giro per la rete…)

La musica che gira intorno

Gran concerto.
Sincero, sanguigno, appassionato.
E lucido. Lucido come i versi di questa canzone, che Fossati ha sentito da Tenco quand’era piccolo, ed ora ha suonato a noi.
Spero un giorno di suonarla anch’io ai giovani di un tempo che sarà, perché non penso proprio che possa perdere di attualità.

Ragazzo mio, un giorno ti diranno che tuo padre
aveva per la testa grandi idee, ma in fondo, poi….
non ha concluso niente
non devi credere, no, vogliono far di te
un uomo piccolo, una barca senza vela

Ma tu non credere,no, che appena s’alza il mare
gli uomini senza idee, per primi vanno a fondo

Ragazzo mio…un giorno i tuoi amici ti diranno
che basterà trovare un grande amore
e poi voltar le spalle a tutto il mondo
no, no, non credere,no, non metterti a sognare
lontane isole che non esistono

non devi credere,ma se vuoi amare l’amore
tu, …non gli chiedere quello che non può dare

Ragazzo mio, un giorno sentirai dir dalla gente
che al mondo stanno bene solo quelli che passano la vita a non far niente
no,no,non credere no,
non essere anche tu un acchiappanuvole che sogna di arrivare

non devi credere, no, no, no non invidiare
chi vive lottando invano col mondo di domani

(foto di Alessandro Corio, che spero non se la prenda)