internouno

Gli anni passano silenziosi e rapidi: ti passano accanto, quasi non li vedi, e poi ti accorgi dei segni che hanno lasciato.

Prove tecniche di sopravvivenza di coppiaUn anno fa iniziava la nostra avventura in questa nuova casa, dalla quale scriviamo e nella quale stiamo scrivendo le nostre vite. Da allora ogni giorno impariamo qualcosa di nuovo sullo stare insieme, sui rapporti umani, su noi stessi. E’ bello vedere questa casa prendere le nostre impronte, vederla portare i segni delle nostre passioni; è bello vedere gli amici che vanno e vengono, si fermano e ripartono. E’ bello anche stare alla finestra a guardare la gente che passa e assaporare quante cose nuove accadano, in ogni istante, fuori e dentro di noi. E’ bello, soprattutto, sentirsi nel posto giusto con la persona giusta.

E’ stato sicuramente il miglior anno della mia vita, ed è fuggito via con una velocità davvero strabiliante. Ma stavolta l’ho sentito passare.

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Mi hai insegnato tante cose…

a pescare
ad amare la musica, e a dedicarle del tempo
a tacere
a raccontare le storie
ad apprezzare il semplice star seduto, e guardarsi intorno
anni dopo per questo avrei amato Buena Vista Social Club, immagino.
Mi hai insegnato a creare dei giochi partendo dal niente
e come si fa a seguire un nipotino
Mi hai insegnato a vendemmiare
a giocare a bocce
a giocare a cava camisa
a giocare a briscola (quanto abbiamo giocato!)
mi hai insegnato che si può andare in triciclo intorno a un tavolo, e fingere di essere in Formula 1
mi hai insegnato che si può fare a gara a chi mangia di più e finisce prima. Non molto educativo, ma utile all’università
mi hai insegnato che uno sguardo può dire più di mille parole
e che una sola parola, detta al momento giusto, valle più di dieci sguardi
mi hai insegnato che si può coltivare da soli la propria verdura
e che i limoni possono essere molto più grossi di quelli del supermercato
mi hai insegnato che una volta la nostra famiglia aveva una band
e che per essere sensibili non è necessario farlo vedere a tutti
mi hai insegnato quanto è buona la liquerizia
e che Ok il prezzo è giusto potevo guardarlo, ma Colpo Grosso no
mi hai insegnato a leggere, lasciandomi a letto fino al mattino tardi ad imparare B.C. a memoria
mi hai insegnato come si raccolgono le tegoline, i fagioli e i piselli
e come si sgrana una pannocchia
mi hai insegnato che in bici si può andare piano, anzi pianissimo, senza cadere
e come si fa a mettere il verme sull’amo
mi hai insegnato a travasare il vino e a tappare le bottiglie
e come si fa a prendere le lucertole senza far loro male
mi hai insegnato che alle persone bisogna prestare attenzione
ma soprattutto credo tu mi abbia insegnato la speranza
perché quella di sicuro non ti è mai mancata.
Tu, invece, mi mancherai.

Delfino Edmondo Borroni (1898-2008)

Al Mondo ci sono ormai solo SETTE reduci della prima guerra mondiale.
In Italia fino a ieri ce n’era uno, oggi non ce ne sono più.

«Caporetto è stato il posto peggiore che ho visto durante la guerra. La vita in trincea era terribile, il freddo, la fame, il rombo delle granate, poi c’erano gli attacchi con il gas. Quando pioveva, poi, si aveva la tentazione di dormire, ma quello era il momento in cui un attacco era più facile, allora il capitano passava, con indosso il suo cappello nero e ci urlava di stare all’erta. Una sera dei soldati del suo battaglione fuggirono dall’accampamento per andare a trovare le loro mogli, che vivevano in un paese lì vicino. Furono scoperti e mandati davanti al plotone d’esecuzione, ma noi compagni impedimmo la loro morte urlando “allora ammazzateci tutti”, perché tanta era la nostalgia delle nostre famiglie».

«Il sergente mi disse di uscire a vedere la situazione fuori dalla trincea. Io gli chiesi perché mandava a morire me che ero il più giovane e lui mi rispose che tutti gli altri avevano figli. Allora uscii strisciando, ma un proiettile mi colpì subito sullo scarpone. Mi finsi morto accanto a due cadaveri di altri soldati e quando gli austriaci se ne andarono, raggiunsi i miei compagni in ritirata. Il sergente mi prese la testa sulle ginocchia e pianse».

«Una volta, in prigione, cominciai a urlare, volevo scrivere alla mia famiglia che da sette mesi non aveva notizie. L’ufficiale austriaco mi rispose: "io è da dieci anni che non torno a casa", ma poi mi diede un foglio e una penna».